domenica 13 maggio 2018

Lettera alla madre


«Mater dolcissima, ora scendono le nebbie,
il Naviglio urta confusamente sulle dighe,
gli alberi si gonfiano d'acqua, bruciano di neve;
non sono triste nel Nord: non sono
in pace con me, ma non aspetto
perdono da nessuno, molti mi devono lacrime
da uomo a uomo. So che non stai bene, che vivi
come tutte le madri dei poeti, povera
e giusta nella misura d'amore
per i figli lontani. Oggi sono io
che ti scrivo.» - Finalmente, dirai, due parole
di quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto
e alcuni versi in tasca. Povero, così pronto di cuore
lo uccideranno un giorno in qualche luogo. -
«Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo
di treni lenti che portavano mandorle e arance,
alla foce dell'Imera, il fiume pieno di gazze,
di sale, d'eucalyptus. Ma ora ti ringrazio,
questo voglio, dell'ironia che hai messo
sul mio labbro, mite come la tua.
Quel sorriso m'ha salvato da pianti e da dolori.
E non importa se ora ho qualche lacrima per te,
per tutti quelli che come te aspettano,
e non sanno che cosa. Ah, gentile morte,
non toccare l'orologio in cucina che batte sopra il muro
tutta la mia infanzia è passata sullo smalto
del suo quadrante, su quei fiori dipinti:
non toccare le mani, il cuore dei vecchi.
Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà,
morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater.»

Salvatore Quasimodo

***
Il poeta inizia parlando di sé, dei luoghi dove ora vive. Abita in Lombardia, dove si trova bene, ma non è felice e quindi scrive alla madre. La madre si meraviglierà della lettera ricevuta e ripenserà a «quel ragazzo che fuggì di notte con un mantello corto / e alcuni versi in tasca». E il poeta ricorda il momento del distacco dalla madre e dalla terra nativa: «Certo, ricordo, fu da quel grigio scalo / di treni lenti che portavano mandorle e arance / alla foce dell’Imera, il fiume pieno di gazze, / di sale, d’eucalyptus. Ma ora ti ringrazio, / questo voglio, dell’ironia che hai messo / sul mio labbro, mite come la tua. / Quel sorriso mi ha salvato da pianti e da dolori». E il poeta conclude rivolgendosi alla morte di non toccare «l’orologio in cucina che batte sopra il muro, / tutta la mia infanzia è passata sullo smalto / del suo quadrante, su quei fiori dipinti: / non toccare la mani , il cuore dei vecchi. / Ma forse qualcuno risponde? O morte di pietà, / morte di pudore. Addio, cara, addio, mia dolcissima mater». Il poeta prega la morte di essere una morte piena di pietà e di pudore e di essere gentile con i vecchi che ormai non sanno che cosa aspettano. Aspettano proprio la morte, perché sanno che sono vicino al tempo della morte.

« Il poeta invia alla madre sola, lontana, ammalata, questa lettera per consolarla della sua solitudine e per aprire il suo animo a colei che sola ha il privilegio di capirlo. Così, la confessione del poeta porta al confronto di due mondi e di due età diverse della sua storia personale: la Sicilia assoluta e mitica, dove crebbe fanciullo e da dove fuggì di notte con un mantello corto / e alcuni versi in tasca, e il grigio settentrione dove vive; l’infanzia fatta favola irrecuperabile ma consolante, e la maturità segnata di pene e di tormenti». (Alberto Frattini)

Ecco come il critico commenta i versi finali della poesia:

«Nessuno risponde. La morte non parla, né intende il nostro linguaggio. E il poeta, che l’ha chiamata gentile, ora la invoca, nella sua pietà e discrezione. Il filo misterioso si riallaccia così, dalla morte all’amore, nella figura-emblema, che ha il profumo di una familiare ed universale religio: dolcissima mater». (Alberto Frattini, Poeti Italiani del XX secolo pagine 676, 678).

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