sabato 31 dicembre 2016

LA LEGGENDA DI CAPODANNO


Nelle valli del Comasco usavano, una volta, la notte di Capodanno, appendere alla porta dei casolari un bastone, un sacco e un tozzo di pane. Eccone il perché. Molti anni fa, al tempo dei tempi, e precisamente la notte di San Silvestro, padron Tobia stava contando il proprio gruzzolo in un angolo della sua capanna, quando fu battuto alla porta. L'avaro coprì con un drappo i suoi ducati e andò ad aprire. Una folata d'aria gelata, di neve lo colpì in viso. Era una notte d'Inverno. Sotto la tormenta, fra il nevischio, egli vide un pover'uomo che si reggeva a stento e che non aveva neppure un cencio di mantello. Padron Tobia fu molto contrariato da quella vista e domandò bruscamente allo sconosciuto: “Che fate qui? Che volete? Chi siete?”. “Sono un povero viandante sperduto e sorpreso dalla bufera, e vi chiedo in carità di poter dormire nel vostro fienile”. “Io non lascio dormire nessuno nel mio fienile. Andate, andate: non posso far nulla per voi!”. “Datemi almeno un tozzo di pane!”. “Non ho pane: andate!”. “Datemi un sacco, un cencio da mettermi al collo ché muoio di freddo”. “Non ho sacchi e non ho cenci”. “Almeno un bastone per appoggiarmi...”. “Non ho bastoni”. E chiuso l'uscio in faccia all'infelice, ritornò al suo gruzzolo, ma sotto il drappo, invece di ducati, trovò un pugno di foglie secche. Padron Tobia impazzì e terminò i suoi giorni vagando per le vallate natie e raccontando a tutti la sua disgrazia. Ma, d'allora in poi, la notte di Capodanno tutti appesero alla porta del proprio casolare un bastone, un sacco, un tozzo di pane.

Otto Cima

Di tutto un po' #454


Non avevo mai veduto il mare. Molte altre cose avevo visto, forse troppe. Uomini avevo visto, forse troppi. Ma il mare mai. E perciò non avevo ancora compreso nulla, non avevo capito assolutamente nulla. Come si può capire qualcosa della vita, e capire a fondo se stessi, se non lo si è imparato dal mare? Come si può comprendere gli uomini e la loro vita, il loro vano sforzarsi e il loro inseguire mete bizzarre, prima di aver spaziato con lo sguardo sul mare, che è sconfinato e basta a se stesso? 

Federico Garcìa Lorca

Immagine tratta dal Web

ARTE: #BellissimePitture70

Dipinto di Luciano Campiti


Ogni mattino è la premessa di un nuovo giorno. Liberiamo gli entusiasmi assopiti. Osserviamo il mondo, come se fosse tutto nuovo e sorridiamo al negoziante, come se non fosse per nulla scontata la sua presenza. E’ un nuovo giorno, tutto di nuovo accadrà, e accadrà comunque. Puoi solo scegliere se viverlo come un banale giorno qualunque, in cui tutto scorre e tu non ci sei, oppure, essere presente e parte di questo meraviglioso fluire che è la vita!

Anna Biason

Il circo di Gedeone

Gedeone è un clown dai buffi capelli rossi... 
ed è il protagonista di questo divertente racconto di Graziella D'Ambrosio.

La famiglia circense aveva montato rapidamente in una notte un tendone grandissimo e coloratissimo nella grande piazza del paese di Nonsisadove. Il primo spettacolo si sarebbe svolto nelle prime ore del pomeriggio e i cavalli, gli elefanti, le bestie feroci, cammelli e foche erano già stati preparati per la sfilata d’apertura. La musica aveva iniziato a inondare la pedana rotonda dove già cinque clown facevano capriole e scherzi fra loro tirandosi secchiate d’acqua e di farina.
Mancava Gedeone un clown dai buffi capelli rossi. Non riuscivano a trovarlo, chissà dove era andato a nascondersi? Lo chiamavano tutti, ma inutilmente, lui non rispondeva.

Tutti iniziarono a preoccuparsi un po’, perché Gedeone era una persona importante per lo spettacolo, ma sopratutto per gli animali del circo! Era lui che li addestrava con dolcezza, premiandoli ogni volta con prelibati bocconcini e sopratutto era lui che portava loro il pranzo e la cena! Gedeone era addetto anche alla pulizia degli animali, li lavava, li strigliava con grandi spazzole, ai cavalli pettinava la criniera facendo poi delle magnifiche trecce inserendo bellissimi nastri colorati. Ai leoni, alle tigri e agli altri animali feroci portava grossi pezzi di carne affinché si sfamassero ben bene prima di ogni rappresentazione. Gedeone insomma ammaestrava, puliva, sfamava tutti gli animali del circo.

Gli artisti cominciarono a chiamare ad alta voce: “GEDEONE, GEDEONEEEEEEEEEEEE!!!” Nessuna risposta! Silenzio assoluto. I clown chiesero al pubblico impaziente di aspettare ancora un po’, Gedeone sicuramente sarebbe arrivato a momenti, ma gli spettatori iniziarono ad applaudire e a fischiare. Dall’alto del tendone scese una persona appesa ad una corda: chi era? Tutti si misero a guardare chiedendosi chi fosse mai quel temerario che calava lentamente dall’alto. Indovinate cari lettori, ma chi poteva essere se non il nostro Gedeone? Si era addormentato dalla stanchezza sulla piazzola del trapezio più alto! Doveva sistemare le corde che sarebbero servite agli acrobati per volare da una parte all’altra della cupola del tendone, ma il sonno aveva avuto il sopravvento facendolo dormire come un ghiro in letargo!

Barbanera, il direttore del circo gli aveva affidato troppo lavoro e vedendolo e andandogli incontro tuonò con voce molto arrabbiata: ” Chi dorme non piglia pesci!”. Il povero clown si mise a piangere umiliato e dispiaciuto per non essere stato all’altezza dei compiti che Barbanera, un omaccione burbero grande e grosso gli aveva imposto. Lo spettacolo ebbe inizio e tutto funzionò a dovere fino alla sfilata degli animali, i quali vedendo il clown avvilito e dispiaciuto, non vollero entrare in scena, ma si strinsero intorno al povero Gedeone leccandolo e strusciandosi addosso in segno affettuoso e consolatorio.

Un elefante, il più grande, allungò la proboscide, l’avvolse intorno alla vita del pagliaccio e se lo portò sul collo in segno di trionfo. Il pachiderma si avvicinò allora ad un enorme secchio d’acqua, con il suo lungo naso ne aspirò un bel po’ e con impeto la spruzzò addosso al burbero Barbanera.
Il pubblico iniziò a ridere e ad applaudire così forte da far tremare tutto il circo. Il direttore Barbanera si stupì moltissimo di quanto era accaduto, si pentì di essere stato così severo e duro con Gedeone e capì di avergli affidato troppi compiti! 

Gudbrando il montanaro

E' una moglie davvero paziente quella del montanaro Gudbrando, 
protagonista di questa divertente favola scandinava...
C’era una volta un uomo di nome Gudbrando che aveva una fattoria lontano lontano, là, sulla montagna: perciò tutti lo chiamavano Gudbrando il montanaro.
Dovete ora sapere che egli aveva una mogliettina e che essi si amavano e si comprendevano l’un l’altro, tanto che la moglie trovava che tutto ciò che faceva il marito era fatto nella maniera migliore ed era sempre contenta qualunque cosa egli facesse. La fattoria era tutta loro e così pure la terra; avevano poi qualche soldo nascosto sotto il materasso e due mucche legate nella stalla.
Un giorno la moglie disse a Gudbrando:
- Sai, caro, penso che dovremo portare una delle nostre mucche in città e venderla; avremo così un po’ di denaro da spendere, come la gente per bene come noi deve sempre avere. Non possiamo certo mettere mano al piccolo gruzzolo che teniamo sotto il materasso. E non saprei che cosa fare, col ricavo di più di una mucca. Inoltre guadagneremo anche in un altro modo: infatti dopo dovrò badare ad una sola mucca, mentre adesso mi tocca dar da mangiare, bere ed accudire a due. –
Detto fatto, pensando che la moglie avesse ragione, Gudbrando si mise subito in cammino verso la città con una delle mucche per venderla; ma giuntovi non trovò nessuno che volesse comperarla.
- Non importa, non importa – si disse Gudbrando – alla peggio non mi resta che ritornare a casa con la mia mucca. La stalla c’è, la mangiatoia anche, e la strada per tornare non è più lunga di quella fatta per venire. – E così si rimise lentamente in cammino verso casa con la sua mucca.
Aveva percorso un pezzettino di strada quando incontrò un uomo che conduceva al mercato un cavallo da vendere.
- Che c’è di meglio di un bel cavallo? – pensò Gudbrando e lo barattò immediatamente con la mucca.
Poco dopo incontrò un altro uomo che camminava spingendosi avanti un bel maiale grasso, e pensò che era senz’altro meglio avere un bel maiale che un cavallo; e lo barattò. Poi incontrò un uomo con una capra e decise che era meglio una capra che un maiale, e barattò anche il maiale.
Fatto un altro pezzo di strada si imbatté in un uomo che aveva una pecora ed ecco che barattò ancora, pensando che era meglio avere una pecora che una capra. Più avanti incontrò un uomo con un’oca e cambiò l’oca con la pecora; e dopo aver camminato ancora un bel po’, incontrò un uomo con un gallo e lo barattò, perché – Certo è meglio – pensò – avere un gallo che un’oca. –
Quindi andò avanti fino che, mentre si avvicinava la sera, sentì un grande appetito e vendette il gallo per un fiorino e con questo si comperò da mangiare pensando:
- E’ sempre meglio salvare la propria pelle, che possedere un gallo! –
Si diresse quindi verso casa e, passando davanti alla casa di un conoscente, entrò a fargli visita.
- Ebbene, – gli chiese il padrone di casa – come è andata in città? –
- Uhm! così, così – disse Gudbrando. – Non posso elogiare la mia fortuna né d’altra parte lamentarmi. – E raccontò tutta la sua giornata dal principio alla fine.
- Ah! – esclamò l’amico. – Ti aspetta una bella strapazzata, appena torni a casa da tua moglie. Il cielo ti assista. Per nulla al mondo vorrei essere nei tuoi panni. –
- Mah, – disse Gudbrando, il montanaro – io penso che avrebbe anche potuto andarmi molto peggio; ma se ho fatto bene o no, ho una moglie così buona che non ha mai niente da ridire su quello che faccio. –
- Ah, ah! – commentò il conoscente. – Tu dici così, ma io non ci credo. –
- Così ne dubiti? – chiese Gudbrando.
- Sì – disse l’amico – e ho qui con me cento zecchini. Sono tuoi se mi darai la prova di quanto hai detto. -
Così Gudbrando restò lì fino a sera e quando cominciò a far buio, insieme si recarono a casa. L’amico si appostò dietro l’uscio per ascoltare, mentre Gudbrando entrò a salutare la moglie.
- Buona sera, cara – disse Gudbrando, il montanaro.
- Buona sera – rispose la moglie. – Oh, sei tu? Sono felice di rivederti. –
Poi chiese come erano andate le cose in città.
- Così, così – rispose Gudbrando. Non c’è molto da vantarsi; quando giunsi in città non trovai nessuno che volesse comperare la mucca, perciò, devo ammetterlo, l’ho barattata con un cavallo. –
- Con un cavallo? – disse la moglie. – Sei stato bravo, grazie di cuore; così potremo andare a Messa la domenica in calessino come fa tanta altra gente; e se ci piace allevare un cavallo, mi pare, abbiamo tutto il diritto di farlo. – Poi aggiunse: – Corri fuori, caro, metti il cavallo nella scuderia. –
- Oh! – esclamò Gudbrando. – Io non ho il cavallo, perché, fatto un altro pezzetto di strada, l’ho barattato con un maiale. –
- Ci credi? – disse la moglie. – Hai fatto ciò che avrei fatto io stessa; mille grazie! Adesso sì che potrò avere in casa un po’ di prosciutto da offrire a chi viene a trovarci. A che cosa ci sarebbe servito, il cavallo? La gente avrebbe solo pensato che ci eravamo inorgogliti tanto da non essere più capaci di andare in chiesa con le nostre gambe; esci, marito mio, e metti il maiale nel porcile. –
- Ma io non ho neanche il maiale! – rispose Gudbrando. – Poco dopo l’ho barattato con una capra. –
- Mio caro! – gridò la moglie. – Come sei stato bravo! Ora che ci ripenso, che cosa ne avrei fatto del maiale? La gente avrebbe finito col dire che eravamo solo capaci di mangiare tutto ciò che avevamo. No, adesso, con una capra avrò il latte, il formaggio e anche la capra. Esci, e mettila nella stalla. –
- No, non ho neppure la capra – disse Gudbrando. – Perché, poco dopo, l’ho barattata con una bella pecora. –
- Non mi dire! – gridò la moglie. – Hai fatto tutto quanto io desideravo, come se ti fossi stata vicina! Che cosa ce ne saremmo fatti, della capra? Avrei finito col perdere metà della giornata per andare a cercarla sulla collina. No, se ho una pecora, avrò lana e vestiti e cibo fresco in casa. Esci a sistemarla. –
- Ma non ho neppure la pecora! – esclamò Gudbrando. – Perché poco dopo l’ho barattata con un’oca. –
- Grazie! Grazie di tutto cuore – gridò la moglie. – Che me ne farei, di una pecora? Non ho più l’arcolaio né il pettine e non mi piace neanche tagliare, mettere in prova, e cucirmi i vestiti. Possiamo comprare i vestiti come abbiamo fatto in passato, e finalmente avrò un bell’arrosto d’oca come ho sempre sognato; ed inoltre le piume con cui posso imbottire il mio cuscinetto. Esci e mettila nel pollaio. –
- Bene, – disse Gudbrando – non ho neppure l’oca, perché poco dopo l’ho barattata con un gallo. –
- Mio caro! – gridò la moglie. – Come pensi a tutto! Avrei voluto farlo io stessa! Un gallo! Hai proprio indovinato! Sostituisce benissimo l’orologio; ogni giorno canterà alle quattro e ci farà buttare per tempo dal letto le nostre pigre gambe. Che cosa ce ne saremo fatti di un’oca? Non so cucinarla, e in quanto al cuscino lo posso imbottire con crine vegetale! Esci e mettilo nel pollaio! –
- Ma, per dir la verità, non ho neppure il gallo – dichiarò Gudbrando. – Perché poco dopo mi è venuta una fame da lupi e, per non morire, ho dovuto vendere il gallo per un fiorino. –
- Sia ringraziato Iddio! – gridò la moglie. – Qualunque cosa tu faccia, la fai per rendermi contenta. A che cosa ci sarebbe servito un gallo? Non dipendiamo da nessuno e al mattino possiamo stare a letto quanto ci pare e ci piace. Il cielo sia lodato che ti ho ancora qui sano e salvo; tu fai tutto così bene che non voglio né gallo, né oca, né maiale, né mucca. –
Allora Gudbrando aprì la porta e disse:
- Ebbene, che cosa ne dite? Ho vinto i cento zecchini? – E il suo vicino dovette ammettere di aver perduto e pagare.

La leggenda dei passerotti

Questa bella e antica leggenda ci ricorda perché 
i passerotti hanno piume modeste e non cantano...

Una volta i passerotti abitavano nei boschi; avevano un bel vestito di piume variopinte e cantavano meravigliosamente.

Venne una grossa nevicata. Il bosco restò sepolto; i campi attorno scomparvero sotto il coltrone bianco. I passerotti non avevano più da mangiare. Morivano di fame. Allora pensarono di emigrare verso il paese dove abitavano gli uomini. I primi passerotti partirono così in direzione del fumo che usciva dai camini accesi.
Giunti in paese, si posarono sugli arpioni delle finestre, sulle grondaie dei tetti e si misero a cantare.

Gli uomini a vedere quegli uccelli così variopinti e a sentirli così cantare se ne invaghirono. Dettero loro la caccia. Parte ne ammazzarono, parte ne fecero prigionieri.

Un solo passerotto riuscì a fuggire. Tornò nel bosco tutto spaventato e disse agli altri uccelli:

- Il nostro bel vestito e il nostro canto melodioso attirano troppo il desiderio degli uomini. Se si vuole vivere in paese bisogna essere più modesti.
Lì per lì i passerotti del bosco protestarono. Essi non avrebbero mai rinunciato al loro vestito variopinto e al loro bel canto. Ma la fame si faceva sentire sempre più forte. O morire o rinunciare al bel vestito di piume colorate.

Fu così che i passerotti mutarono aspetto. Si misero un povero vestito di piume grigie, senza coda, presero un becco tozzo, da mangiatori di cibi duri e si presentarono alla casa dell’uomo come tanti mendicanti, facendo un solo verso:

- Cip, cip! – che vuol dire: – Buon dì, buon dì!

Allora l’uomo si commosse alla vista di questi poveri uccelli affamati e dette loro da mangiare.

Da quel giorno i passerotti non abitarono più nel bosco, ma vissero attorno alle case degli uomini, vestiti modestamente e senza canto.

Il cacciatore e il beccaccino

Per ogni genitore i propri figli sono i più belli al mondo. 
Ce lo ricorda anche questa favola norvegese...
C’era una volta un cacciatore che era andato a caccia nel bosco.
Lì incontrò un beccaccino.
« Caro amico, non sparare ai miei figli! » pregò il beccaccino.
« E come sono i tuoi figli? » chiese il cacciatore.
« I più belli del bosco sono i miei figli» rispose il beccaccino.
« Farò di tutto per non colpirli » fu la promessa del cacciatore.
Ma, al ritorno, il cacciatore recava nel carniere un mazzo di beccacce che aveva appena abbattuto.
« Oh, perché hai sparato lo stesso ai miei figliuoli? » chiese il beccaccino.
« Erano questi i tuoi figliuoli? – domandò il cacciatore. – Ma io ho sparato ai più brutti che vedevo! » 
«Già! – rispose il beccaccino – non sai che, per ogni genitore, i propri figli sono i più belli? »

La principessa che non voleva sposarsi

Una bella favola della tradizione popolare bulgara...
Macienka era una principessa bellissima, ma non voleva saperne di sposarsi. Alle richieste matrimoniali che le facevano i più nobili, i più ricchi, i più potenti personaggi della terra, rispondeva con un diniego.
Il re, suo padre, perdette la pazienza. E un giorno che aveva rifiutato il monarca di un regno vicino, le parlò con severità:
- Non sei più una bimba. L’ora delle nozze, per te, è giunta. Fra tre giorni, qui nella reggia, si riuniranno mille giovani. Giovani aristocratici, neanche a dirlo! Re, principi, duchi. Potrai scegliere. Eccoti una mela d’oro. L’offrirai al pretendente che più ti garba. E questi diventerà il tuo sposo.
Macienka non osò manifestare il proprio rammarico. Ma corse subito in giardino e, senza essere vista, gettò la mela nella vasca.
Il giorno fissato per la grande scelta, quando il padre si recò ad annunziarle che i mille pretendenti l’aspettavano nel salone degli smeraldi, la fanciulla confessò di non aver più ormai la mela d’oro.
Figurarsi il re!
- Possibile che tu abbia perduto la mela magica? Solo con la mela tra le mani avresti capito quale dei giovani aristocratici avrebbe potuto amarti, quale renderti felice!
Macienka capì di aver commesso una sciocchezza enorme.
- Padre mio, la mela d’oro devo averla perduta in giardino. Ora vado a cercarla.
- Ma i tuoi pretendenti aspettano.
- Avranno pazienza.
La fanciulla raggiunse la vasca, sedette sul bianco parapetto. Incominciò a lamentarsi:
- Povera me! Dovrò scegliere uno sposo a casaccio e commetterò, senza dubbio, un enorme sbaglio. Mela, piccola mela d’oro, ritorna a galla. Tu puoi guidarmi, illuminarmi, spingermi verso la felicità.
Le acque si agitarono, un pesce verde raggiunse, con un guizzo, il grembo della principessa e vi depose la mela d’oro.
- La mela l’hai lanciata a me, dunque sposerai me.
- Sposarti? – s’indignò la ragazza. – Sposare una bestia? E’ follia.
- Mi sposerai. E saprò renderti felice.
Il pesce si rituffò in acqua e Macienka, con la mela d’oro, si recò nel salone degli smeraldi.
Guardò a uno a uno i giovani che vi stavano raccolti, ma non sapeva decidersi a scegliere.
Finalmente sussultò. Era entrato nella stanza un giovane pallido, vestito di velluto nero, che portava un bizzarro cappello verde a forma di pesce.
La fanciulla, seguendo un impulso subitaneo, gli lanciò la mela. E subito venne proclamato il suo fidanzamento col misterioso personaggio il quale era il potentissimo re di un gran reame. Una strega maligna l’aveva trasformato in pesce e gettato nella vasca, in cui lo aveva raggiunto, liberandolo dal malvagio incantesimo; la mela d’oro.
Con lui, che oltre a esser sapientissimo e bello aveva animo nobile e cuor tenero, Macienka visse molti e molti anni in perfetta felicità.

La leggenda dei mesi

Questa bella e antica leggenda ha come protagonisti i mesi dell'anno...
C’erano una volta due fratelli, uno povero e l’altro ricco. Un giorno, quello povero venne invitato nella casa dei mesi, che vollero sapere che cosa si diceva di loro nel mondo.

- Si dice bene! – rispose l’ospite. E di ogni mese disse ciò che ha di buono. Per esempio che gennaio nasconde il pane sotto la neve, che febbraio fa divertire, che marzo porta la primavera, che aprile fa godere dolci sonni, che maggio dona le rose…

I mesi, soddisfatti, gli regalarono una tovaglia che aveva la proprietà di far comparire qualsiasi cibo ogni volta che veniva distesa.
Quando il fratello ricco lo venne a sapere, andò subito alla casa dei mesi. E questi anche a lui chiesero:

- Che cosa si dice di noi nel mondo?

- Si dice male! - rispose l’ospite. E di ogni mese disse ciò che ha di cattivo. Per esempio che gennaio regala i geloni, che febbraio dà la febbre, che marzo è pazzo…

I mesi gli regalarono allora una scopa dicendo che, per avere qualche cosa bastava dirle : - Dà!

Ritornò a casa con la scopa in spalla.

- Una scopa? – domandò la moglie. Per tutta risposta, il marito disse: - Dà! – e la scopa si mise a battere l’uno e l’altra, che se non si riparavano presto dentro un armadio, chissà quante botte avrebbero preso.
Quando furono ben sicuri che la scopa si era quietata, uscirono dall’armadio e, guardandosi le lividure, capirono la lezione.

- I mesi dell’anno sono pur buoni – disse il marito – Moglie mia, siamo già ricchi, non cerchiamo altre ricchezze!

Gli occhiali del tonno

Un tonno era diventato molto miope e non riusciva più a dar la caccia ai pesciolini. La disgrazia gli era successa perché aveva preso la brutta abitudine di leggersi il “Corriere dei pesci” nel fondo buio del mare e la vista ne aveva sofferto.

Un merluzzo, che era venuto a saperlo, andò a trovarlo e gli disse: – Senti, se vai avanti così, rischi di morir di fame. Perché non ti compri un paio di occhiali?

- Caspita, non ci avevo pensato! – disse il tonno e nuotò a tutta velocità verso la tana del polpo gigante, che faceva l’occhialaio. Il polpo gli diede un bel paio di occhiali con la montatura rossa di corallo. Al tonno quegli occhiali piacquero talmente che li comprò subito, senza nemmeno provarli e ripartì sbattendo le pinne per la gioia.

Ma, quando li mise, si accorse che, ahimè, i pesci erano diventati ancora più piccoli.

- Devi avere un paio di occhiali sbagliati – gli disse una vecchia acciuga.

E il tonno tornò dall’occhialaio. Questa volta comprò quelli con la montatura di tartaruga ma, appena fuori, provò una paura, una paura orribile. Tutto il mare era pieno di orrendi pesci più grandi di una casa e talmente mostruosi da fargli rizzare tutte le squame. Il povero tonno, mezzo morto di paura, si rifugiò in una grotta di conchiglie, rassegnato a morire. Ma un delfino gentile andò a comprargli un bellissimo paio di occhiali con la montatura d’oro.

Il tonno, appena li ebbe infilati, vide tutto giusto e tutto bello e si sentì talmente felice che gli passò persino la voglia di mangiarsi i pesci.

Si accontentò di nutrirsi di verdi alghe. E si vede che questo cibo era il più adatto al suo stomaco debole, perché divenne il più vecchio pesce del mare. 

CAPODANNO TELEVISIVO ... di Dana Carmignani



A me ha rovinato la televisione!

I miei vecchi non consideravano Capodanno un avvenimento eccezionale, per loro la sera dell’ultimo dell’anno era una sera come tutte le altre…solo ecco si stava alzati un po’ di più. Nonno alla sua ora andava a letto come sempre, ma io, come vedevo fare in televisione, volevo rimanere alzata, e condizionavo nonna che povera donna mi dava retta.

Erano i primi anni televisivi e all’epoca anche per la televisione era Capodanno, perché le trasmissioni finivano molto prima normalmente, ma quella sera invece si allungavano fino alla mezzanotte e oltre, con di solito canti e balli (non tanto diverso da ora in fondo) e giochi o il circo.

Zio “Checchere” (Palmiro), il fratello di nonno che abitava accanto, portava una bottiglia di spumante…noi si metteva il panettone… ma la maggior parte delle volte finiva che il brindisi lo facevamo prima… perchè non si riusciva a stare svegli... “ Che importa-diceva nonna- che importanza ha…”…. e andavamo a letto… ma io, seduta al tavolino, rincantucciata accanto alla stufa, con le palpebre che mi cascavano…e la guancia appoggiata alla mano, quanto sognavo guardando il video e la vita che ci passava dentro. 
Quanto fantasticavo!

Anch’io mi sarei presentata quando sarei stata grande, in tutto il mio splendore…anch’io avrei camminato su tacchi alti luccicante di lustrini, e avrei ballato fino all’alba… anch’io sarei stata in mezzo a persone di città diverse aspettando la mezzanotte sorridendo di felicità… … e l’ho fatto poi… e ho sentito più solitudine, a volte, che mai in quei Capodanno passati da sola, da bambina, in mezzo a quei vecchi.

La felicità costruita sulle “ corna delle zanzare”, come diceva nonna, non regge, come non reggono le scenografie se non sono sorrette da sentimenti veri.

Auguro a tutti un anno pieno di VERI sentimenti e anche di ricordi di un passato ma non nostalgico, creativo invece che serva a vivere un bel presente e a guardare avanti al futuro.


I DUE VOLTI DEL CAPODANNO


Capodanno è sempre stata una festa importantissima in ogni civiltà ,anche se anticamente non per tutti i popoli cadeva nel passaggio tra il 31 dicembre e il 1 gennaio. 

Fu il calendario giuliano, ovvero il calendario promulgato da Giulio Cesare nella sua qualità di pontefice massimo nel 46 a.C., a fissare l’inizio dell’anno il 1° gennaio, mentre prima era il 1° marzo. I Romani chiudevano l’anno con i Saturnali, le feste in onore del dio Saturno, e festeggiavano l’inizio del nuovo, il 1°gennaio, con le celebrazioni in onore del dio romano Giano, da cui trae origine il nome del mese di Gennaio. 

Il Dio Giano Bifronte è il dio dell’inizio e della fine, raffigurato con un volto rivolto all’anno vecchio e uno all’anno nuovo. 

A questa divinità, i sacerdoti offrivano farro e focaccia per propiziare i raccolti del nuovo anno. 

Quello stesso giorno i Romani usavano far visita agli amici, scambiarsi doni, fare offerte di focacce e di incenso al dio dell’inizio.

Il ogni caso, Capodanno è sempre stato visto come un momento di cambiamento, di rigenerazione, di nuovi auspici,e lo era soprattutto per le società agricole del passato, dove la concezione del tempo, seppur circolare (Annus significa anche cerchio), considerava ogni ciclo annuale come un tempo concluso, in cui l’anno, bene o male,aveva dato i suoi frutti e ora finiva con la cancellazione del passato e la conseguente apertura di un tempo nuovo e di una nuova vita.

PER UN 2017 DI PACE E FELICITA' PER TUTTI


"Fra il calore di un sogno e il freddo di un’illusione
tra fantasia e realtà, tra gioie e dolori
si dissolve un anno e si compone un altro.
Tra promesse fatte e solo alcune mantenute
note stonate di dolore e melodie d’amore
hanno composto la sinfonia di un anno appena passato.
Fra stenti e abbondanza, fra ricchezza e povertà
fra note di pace e rumore di guerra,
tutto si è svolto, a volte si è capovolto.
Chi senza lavoro cerca di sopravvivere
tra terremoti e alluvioni
c’è chi si è rialzato, chi ha raccolto brandelli
chi ha avuto tutto e chi è rimasto con niente.
Così come sempre tra l’indifferenza
di molta gente, dei politici, del potere
di chi avrebbe potuto fare e non ha fatto niente
tra angoscia e speranza si è scritto l'anno vecchio
si è concluso per molti disperatamente.
A questi “violentati” dal dolore
e a chi combatte il “suo tempo”
per sorridere ancora,
a questi guerrieri addolorati
in cerca di pace e di un sorriso,
auguro di rialzarsi vincitori
contro il tempo, il dolore e l’avversità
e che il potere venga usato finalmente per la Pace,
che tutti possano vestirsi con un po’ di felicità.

Questo è il mio augurio per il Nuovo Anno"
(Silvana Stremiz)

Di tutto un po' #453


L’ultimo giorno dell’anno è un giorno insieme magico e speciale,
è tempo di bilanci, resoconti, valutazioni,
è tempo di sogni, speranze, pianificazione.

In un giorno vecchio e nuovo si incontrano,
come in un abbraccio
e l’uomo, per degli istanti
è messo di fronte al tempo che passa,
alla gioia del nuovo, al ricordo del passato.

Trasforma questi momenti in un’occasione per seminare nuovi gesti nella tua vita
per ottenere in regalo, nel nuovo anno,
ciò che ancora cerchi e speri per te stesso.

Butta i vecchi abiti mentali
e indossa un nuovo atteggiamento
che ti faccia scoprire in ogni singolo attimo la bellezza di una vita
che si snocciola, giorno dopo giorno,
tra le tue mani.

Oggi e in ogni nuovo giorno, al sorgere del sole.

Di tutto un po' #452

E imparai, con umiltà e fatica, ma imparai quello che dovevo fare, e che sarebbe stato ovvio per un bambino: la vita non è altro che un susseguirsi di tante piccole vite, vissute un giorno alla volta.

Imparai soprattutto che la vita è sedere su una panchina sulla riva di un fiume antico, con la mia mano posata sul suo ginocchio e a volte, nei momenti più dolci, innamorarmi di nuovo.

Nicholas Sparks

ARTE: #BellissimePitture69

Dipinto di Lauri Snow Hein

Il ragazzo sentì che esisteva un perfetto accordo fra lui e quell’opulenza della natura circostante. Trasse un profondo respiro e fu come se una parte di quell’invisibile che costituisce la natura avesse permeato l’intimità del suo essere. Sentiva il fragore delle onde che si frangevano sulla spiaggia ed era come se il battito del suo sangue giovane fosse sincronizzato col movimento delle grandi maree.

Yukio Mishima - La voce delle onde

ARTE: #BellissimePitture68

Dipinto di Vladimir Volegov

Dove è odio, fa' che io porti l'amore. Dove è offesa, che io porti il perdono. Dove è discordia, che io porti l'unione. Dove è dubbio, che io porti la fede. Dove è errore, che io porti la verità. Dove è disperazione, che io porti la speranza. Dove è tristezza, che io porti la gioia. Dove sono le tenebre, che io porti la luce. 

San Francesco d'Assisi

ARTE: #BellissimePitture67

Dipinto di Lauri Snow Hein

Il nostro tempo è limitato, per cui non lo dobbiamo sprecare vivendo la vita di qualcun altro. Non facciamoci intrappolare dai dogmi, che vuol dire vivere seguendo i risultati del pensiero di altre persone. Non lasciamo che il rumore delle opinioni altrui offuschi la nostra voce interiore. E, cosa più importante di tutte, dobbiamo avere il coraggio di seguire il nostro cuore e la nostra intuizione. In qualche modo, essi sanno che cosa vogliamo realmente diventare. Tutto il resto è secondario.


Steve Jobs

Ogni giorno al tuo risveglio pensa

Dipinto di Sally Swatland

Oggi sono fortunato perché mi sono svegliato Sono vivo ho il dono prezioso della vita
Non lo sprecherò.
Userò tutte le mie energie per migliorare me stesso, per aprire il mio cuore agli altri, lavorerò per il loro beneficio.
Avrò so lo pensieri gentili verso gli altri
non mi arrabbierò e non penserò male di nessuno.
Aiuterò gli altri il più possibile mettendo la mia vita al loro servizio.

Preghiera Tibetana

Filastrocca di Capodanno

Filastrocca di Capodanno
fammi gli auguri per tutto l’anno:
voglio un gennaio col sole d’aprile,
un luglio fresco, un marzo gentile;
voglio un giorno senza sera,
voglio un mare senza bufera;
voglio un pane sempre fresco,
sul cipresso il fiore del pesco;
che siano amici il gatto e il cane,
che diano latte le fontane.
Se voglio troppo, non darmi niente,
dammi una faccia allegra solamente.
(Gianni Rodari)

giovedì 29 dicembre 2016

La piccola fiammiferaia

Una favola triste, senza lieto fine, dello scrittore danese Hans Christian Andersen che, tuttavia, può servire a spiegare ai bambini che nella vita ci sono eventi che non possiamo controllare, come le malattie e la morte. Imparare quindi ad apprezzare tutto quello che abbiamo: la mamma, il papà, la casa, il cibo.... (le belle illustrazioni sono di Lucie Brunelliere)
Era l’ultimo giorno dell’anno: faceva molto freddo e cominciava a nevicare. Una povera bambina camminava per la strada con la testa e i piedi nudi. Quando era uscita di casa, aveva ai piedi le pantofole che, però, non aveva potuto tenere per molto tempo, essendo troppo grandi per lei e già troppo usate dalla madre negli anni precedenti. Le pantofole erano così sformate che la bambina le aveva perse attraversando di corsa una strada: una era caduta in un canaletto di scolo dell’acqua, l’altra era stata portata via da un monello. La bambina camminava con i piedi lividi dal freddo.
Teneva nel suo vecchio grembiule un gran numero di fiammiferi che non era riuscita a vendere a nessuno perché le strade erano deserte. Per la piccola venditrice era stata una brutta giornata e le sue tasche erano vuote. La bambina aveva molta fame e molto freddo. Sui suoi lunghi capelli biondi cadevano i fiocchi di neve mentre tutte le finestre erano illuminate e i profumi degli arrosti si diffondevano nella strada; era l’ultimo giorno dell’anno e lei non pensava ad altro! Si sedette in un angolo, fra due case. Il freddo l’assaliva sempre più. Non osava ritornarsene a casa senza un soldo, perché il padre l’avrebbe picchiata. Per riscaldarsi le dita congelate, prese un fiammifero dalla scatola e crac! Lo strofinò contro il muro. Si accese una fiamma calda e brillante. Si accese una luce bizzarra, alla bambina sembrò di vedere una stufa di rame luccicante nella quale bruciavano alcuni ceppi. Avvicinò i suoi piedini al fuoco… ma la fiamma si spense e la stufa scomparve.
La bambina accese un secondo fiammifero: questa volta la luce fu così intensa che poté immaginare nella casa vicina una tavola ricoperta da una bianca tovaglia sulla quale erano sistemati piatti deliziosi, decorati graziosamente. Un’oca arrosto le strizzò l’occhio e subito si diresse verso di lei. La bambina le tese le mani… ma la visione scomparve quando si spense il fiammifero. Giunse così la notte. “Ancora uno!” disse la bambina. Crac! Appena acceso, s’immaginò di essere vicina ad un albero di Natale. Era ancora più bello di quello che aveva visto l’anno prima nella vetrina di un negozio. Mille candeline brillavano sui suoi rami, illuminando giocattoli meravigliosi.
Volle afferrarli… il fiammifero si spense… le fiammelle sembrarono salire in cielo… ma in realtà erano le stelle. Una di loro cadde, tracciando una lunga scia nella notte. La bambina pensò allora alla nonna, che amava tanto, ma che era morta. La vecchia nonna le aveva detto spesso: “Quando cade una stella, c’ è un’anima che sale in cielo”. La bambina prese un’altro fiammifero e lo strofinò sul muro: nella luce le sembrò di vedere la nonna con un lungo grembiule sulla gonna e uno scialle frangiato sulle spalle. Le sorrise con dolcezza.
- Nonna! – gridò la bambina tendendole le braccia, – portami con te! So che quando il fiammifero si spegnerà anche tu sparirai come la stufa di rame, l’oca arrostita e il bell’albero di Natale.
La bambina allora accese rapidamente i fiammiferi di un’altra scatoletta, uno dopo l’altro, perché voleva continuare a vedere la nonna. I fiammiferi diffusero una luce più intensa di quella del giorno:
“Vieni!” disse la nonna, prendendo la bambina fra le braccia e volarono via insieme nel gran bagliore. Erano così leggere che arrivarono velocemente in Paradiso; là dove non fa freddo e non si soffre la fame! Al mattino del primo giorno dell’anno nuovo, i primi passanti scoprirono il corpicino senza vita della bambina. Pensarono che la piccola avesse voluto riscaldarsi con la debole fiamma dei fiammiferi le cui scatole erano per terra. Non potevano sapere che la nonna era venuta a cercarla per portarla in cielo con lei. Nessuno di loro era degno di conoscere un simile segreto!

Di tutto un po' #451


Così. . . .
Scopri chi sei, e sii cio’ che sei.
Decidi che cosa viene prima, e scegli farlo.
Scopri i tuoi punti di forza, usali e dai loro spazio.
Impara a non competere con gli altri,
perché nessun altro è in gara con te.
Allora avrai..
Imparato ad accettare la tua unicità.
Imparato a definire le priorità e prendere decisioni.
Imparato a convivere con i tuoi limiti.
Imparato a darti il rispetto che ti è dovuto.
E avrai una vita più entusiasmante e vitale.

Stephen Littleword 

Foto di Sarawut Intarob

ARTE: #BellissimePitture66

Dipinto di Gustave Courbet

Ed è qualcosa da cui non puoi scappare. Il mare. 
Il mare incanta, il mare uccide, commuove, spaventa, fa' anche ridere, alle volte, sparisce, ogni tanto, si traveste da lago, oppure costruisce tempeste, divora navi, regala richezze, non da' risposte, e' saggio, e' dolce, e' potente, e' imprevedibile. 
Ma soprattutto: il mare chiama. 
Non fa' altro, in fondo, che questo:chiama 
Non smette mai, ti entra dentro, ce l'hai addosso, è te che vuole. 
Puoi anche far finta di niente, ma non serve. 
Continuerà a chiamarti. 
Questo mare che vedi e tutti gli altri che non vedrai, ma che ci saranno, sempre, in agguato, pazienti, un passo oltre la tua vita. 
Instancabilmente, li sentirai chiamare. 
Senza spiegare nulla, senza dirti dove, ci sarà sempre un mare, che ti chiamerà."

Alessandro Baricco 

♥♥Buonanotte♥♥


Buonanotte
Ai desideri che mi fanno compagnia
Nella notte
E mi sostengono come fa una madre col proprio bambino che sta crescendo
Alla me che è capace di essere indifferente a tutto il dolore del mondo, come fanno tutti
Perché se veramente ci pensassimo bene a quanta sofferenza c'è nel mondo non dovremmo più dormire . Invece dormiamo lo stesso
Alla vita, che è fatta così
Cioè ti consente di ricominciare
Nonostante il dolore,tuo e degli altri
Nonostante tante storture, ti consente perfino di ricominciare a sorridere dopo rovinose cadute 
Alla mia voglia di diventare leggera leggera
E di lasciar perdere tutti i pensieri arzigogolati che ostacolano il libero fluire della mia vita
Ai pensieri infantili che mi consentono di lasciarmi andare e di essere anche piccola , col cuore con la mente
Alle persone che sanno sorprendermi perché, pur non aspettandomi niente da loro, danno qualcosa sempre lo stesso
Al nuovo giorno 
Che spero mi regali il sorriso e la meraviglia che consentano di vivere bene il giorno che verrà
A domani
Lod

♥Buonanotte♥


Buonanotte
La felicità la scopri là dove ti manca 
Qualcuno che non c'è 
Allora sai che se ci fosse quel qualcuno
Saresti felice anche 
con tutti i pugni che la vita ti dà 
La felicità la vedi là dove non c'è 
L'amore 
Allora capisci che se ci fosse l'amore 
Sarebbe più bello vivere
Invece in ogni caso 
Scopri che vivere 
È sporcarsi l'anima con l'amore 
Anche se ti fa star male 
E anche senza 
Vivere è avvertire che 
dentro c'è qualcosa
Che ti fa palpitare 
E non sapere nemmeno cosa è 
Vivere è sentire la notte
E avere questa grande voglia dell'alba 
Per far colazione
Per sorridere ad un pensiero felice
O che ti promette felicità 
Per accarezzarti l'anima 
Per aspettare il giorno
Per tremare al pensiero
Di scoprire ancora dentro di te
Non solo amarezza 
Non solo dolore 
Non solo lacrime
Ma amore
Ancora 
Buonanotte 
A domani
Ilaria Zoe

...MA PER QUALCUNO E’ PIU’ UGUALE


“La sai l’ultima? La giustizia è uguale per tutti”. La storia è lunga. Già il greco Plutarco, in riferimento alla giustizia lamentava che “le tele dei ragni pigliano le mosche, ma lasciano scappare i calabroni”; e il poeta latino Giovenale stigmatizzava i censori che “perdonavano ai corvi, ma facevano strazio di colombe”. Dopo tanti secoli, le cose non sono cambiate gran che, e la gente lo dice a modo suo: “Sta in galera chi ruba un legno, sta sul trono chi ruba un regno”; “molte volte il denaro e l’amicizia, rompono le gambe alla giustizia” ecc… ecc… Certo, “guai a chi s’incapriccia a voler giusta la giustizia” (A. Brofferio); e questo è sicuramente vero, nel senso che una giustizia non accompagnata dalla pietà è disumana: “La giustizia che gioca co’ la spada, diventa giusta quanno cambia strada” (Trilussa). Già il grande Cicerone diceva: “Summum jus, summa iniuria”, cioè, il troppo rigore è ingiusto; ma altrettanto ingiusto è il cedimento: “Leggi senza pene, campane senza battaglio”. È anche vero che la giustizia ha tempi lunghi, specialmente quella di Dio, che ha a disposizione secoli e millenni. Ma anche quella umana non scherza: solo due anni fa si è concluso il processo più lungo della storia (almeno quella italiana). Era iniziato ad Agrigento nel 1816, e si è chiuso nella stessa città il primo settembre 2008. La vertenza riguardava la validità della vendita di un terreno da parte del comune agrigentino di San Giovanni Gemini a dei privati. Da notare che il processo è terminato solo perché la parte perdente non ha voluto impugnare l’ennesima sentenza emessa, pensate un po’, dopo 192 anni! Questo accade alla giustizia umana. La giustizia di Dio è un po’ diversa, ma altrettanto “misteriosa”: ne è prova il fatto che il primo a “rubare” il paradiso è stato il buon ladrone.