martedì 26 luglio 2016

"BADARE LA CASA" di Fiorenzo Barzantiinte


Quel martedì pomeriggio di luglio era una giornata normale. Caldo afoso, sole cocente e le cicale che cantavano a squarciagola sui mandorli. Il loro concerto era continuo e senza pausa ma non disturbava perché faceva parte dell’ambiente insieme con gli altri rumori naturali della campagna. Sembravano migliaia ma in realtà su ogni mandorlo potevano essere tre o quattro ben camuffate ed indistinguibili dai rami. Ogni tanto un gruppo si fermava improvvisamente e come comandate da un direttore d’orchestra quelle dell’altro mandorlo iniziavano a ‘’cantare’’. Avrebbero smesso verso sera. Io ero un bambino ed avevo frequentato la seconda elementare, ero solo nell’aia con i miei giocattoli all’ombra proprio del mandorlo mentre i miei genitori lavoravano nei campi. Avevo un compito ben preciso: ‘’badare la casa’’. Era un compito assegnato ai bambini che aveva regole ben precise da osservare. Potevano capitare persone conosciute o sconosciute. Se capitava il padrone del podere che si chiamava Gino (gran brav’uomo), io lo salutavo educatamente quindi mi avvicinavo alla siepe ed urlavo forte ‘’ ba u iè e padron’’ (babbo c’è il padrone). Gino mi diceva che non c’era bisogno di avvisare mio babbo perché sarebbe andato lui a fare visita nel campo. In realtà il segnale aveva un significato ben preciso. Spesso i contadini nascondevano una parte del raccolto così che la parte da dividere con il proprietario del podere fosse inferiore. A sua volta il proprietario del podere faceva visita improvvisamente per verificare che il contadino non ‘’fregasse’’. Un avviso quindi serviva per mettere in moto gli accorgimenti necessari. Era simile alla lotta fra il gatto ed il topo, ognuno conosceva perfettamente il ruolo dell’altro e svolgeva la sua parte in modo ineccepibile. Poteva capitare la Maddalena che era la bidella della scuola elementare e che aveva il telefono pubblico in casa. Se aveva telefonato qualcuno lasciando un messaggio ne prendevo atto e riferivo alla sera. Se invece era una telefonata urgente e l’interlocutore era in attesa al telefono chiamavo mio babbo che dopo mezz’ora arrivava. Vi faccio notare che un’attesa di mezz’ora era normale e la linea non cadeva. Poteva capitare la Malvina, vicina di casa, per chiedere in prestito due uova. Io l’accompagnavo nel pollaio e lei sapeva dove prenderle. Potevano capitare le zingare e qui il discorso era più complesso. Appena le avvistavo e non era semplice perché spesso qualcuna arrivava da dietro il pagliaio e cercava di agguantare una gallina oppure una cercava di intrattenermi facendo finta di regalarmi delle medagliette e l’altra sgusciava via sempre alla ricerca della gallina, bene, non appena le avvistavo prendevo un bastone e colpivo forte una botte di ferro che era vicina. Mio babbo sentiva i colpi che erano segnali di pericolo ed accorreva immediatamente. Poteva capitare ‘’ e zupazz’’ (lo zoppo). Vi ho parlato ancora di questo simpatico personaggio. Era un uomo senza gambe e molto povero che abitava nel ‘’camerone’’ del comune di Cesena e viaggiava nel suo carrettino trainato da un asino. Di mestiere faceva ‘’e spranghin’’ cioè aggiustava le teglie di terracotta per fare la piadina ed aggiustava gli ombrelli. Io gli davo la teglia ‘’crepata’’ e lui con santa pazienza lavorando con la spranga ed il ‘’truvlen’’ (piccolo trapano a mano) la sistemava perfettamente. Come ricompensa gli davo un fiasco di sangiovese. Comunque quel giorno non capitò nessuno. Solo il gatto veniva a trovarmi, si piazzava fisso davanti e mi guardava. Io lo strapazzavo per farlo arrabbiare e lui fuggiva. La cagnolina Lilla aveva preferito seguire i miei nei campi, si divertiva di più a cacciare le lucertole. Verso le cinque di sera sentivo un certo languorino allo stomaco. Era ora di fare merenda. Potevo prendere il vaso della ‘’nutella’’ e spalmarla sul pane ma la nutella non era stata ancora inventata. Potevo prendere una merendina del Mulino bianco ma quell’attore che nella pubblicità parla con la gallina che è talmente brava che lo ipnotizza (alla faccia del cervello piccolo delle galline) doveva ancora nascere. Potevo aprire un vasetto di marmellata di albicocche che aveva fatto mia mamma ma era rigorosamente vietato perché si poteva mangiare solo in inverno. Potevo, e questo era possibile, prendere una fetta di pane e spalmarla con olio e zucchero ma non ne avevo voglia. Ebbi un’idea geniale. Presi un pezzo di pane e mi inoltrai in mezzo ai grandi peschi della ‘’Bella di Roma’’. Ormai la raccolta era terminata e voi cittadini che non siete abituati, non avreste trovato nessun frutto. Io invece avevo l’occhio allenato e trovavo ben nascoste in mezzo alle foglie e nei rami alti qualche pesca sfuggita alla raccolta. Dovete sapere che la ‘’ bella di Roma’’ (ora non esiste più) era una pesca favolosa come sapore. La polpa era bianca e la buccia pelosa era rossa nella parte alta e verde in quella bassa. Mi arrampicai con gentilezza sul tronco perché al minimo scossone la pesca sarebbe caduta perché ormai troppo matura. Riuscì ad agguantarla e la sbucciai con facilità. Provate ad immaginare il gusto insieme ad un pezzo di pane, era ineguagliabile. Ancora oggi vi invito ad andare in mezzo ai peschi dove la raccolta è terminata, scrutate bene in mezzo ai rami e la sorpresa la trovate. Un’altra cosa si poteva trovare su alcuni rami di pesco, era il nido dei cardellini. Era perfetto e neppure un architetto avrebbe potuto creare un’opera d’arte simile. Spesso il nido era vuoto perché gli uccellini già grandicelli era volati via. Altre volte i piccoli erano presenti ed aprivano la bocca credendo che il rumore fosse della mamma che gli portava il cibo. In questo caso la mamma si avvicinava facendo un gran chiasso per allontanare l’intruso. Era bene allontanarsi perché non erano rari i casi in cui la mamma abbandonava il nido per sempre. Siamo all’inizio degli anni 60 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato prevalentemente da famiglie di contadini mezzadri. La mia era una di quelle. Vi ho detto che i miei genitori erano andati a lavorare nei campi, ma cosa facevano esattamente quel giorno di luglio? Raccoglievano ‘’ i gambarun’’ (le gambe dei carciofi ormai rinsecchite). Con la zappa troncavano le piante rasoterra, li legavano in ‘’fascine’’ e li portavano a casa. Sarebbero serviti durante l’inverno per fare fuochi veloci, per esempio per scaldare velocemente l’acqua nella ‘’furnasela’’ (un bidone con il bruciatore sotto) e fare il ‘’pastone’’ per i maiali. Il carciofo per i contadini era una risorsa incredibile e, come si diceva del maiale, ‘’non si buttava via niente’’. Dunque in luglio le piante rinsecchite venivano tagliate e utilizzate come vi ho detto. In autunno-inverno dalle radici rimaste nel terreno spuntavano le piantine nuove. Spesso erano troppe ed occorreva diradarle. Alcune venivano trapiantate dove le piante non avevano ‘’buttato’’, le altre venivano utilizzate in cucina da fare impanate e fritte, oppure in umido con olio buono, oppure lessate e condite con olio, infine per fare il sugo. Quelle che rimanevano venivano date in pasto agli animali. Alcune piantine venivano interrate senza essere tagliate e crescevano bianche sotto terra, dopo il gelo invernale erano ottime e tenere per fare l’umidino. Assomigliavano ai famosi ‘’gobbi’’ che si trovano anche oggi nei negozi di frutta e verdura. Nel mese di maggio spuntavano i carciofi veri e propri (per ognuno la prima, le seconde e le terze). Erano un’ottima entrata economica per i contadini. Le terze servivano per fare i carciofini sott’olio da consumare durante l’inverno come contorno. Addirittura le foglie di carciofo venivano vendute per pochi spiccioli che rimanevano a noi bambini ad un personaggio che era soprannominato ‘’Zoiba’’ (Giovedì, forse perché gli mancava un giorno della settimana). Dimenticavo di dirvi, in luglio in alcune piante rinsecchite dei carciofi svettavano dei bellissimi fiori viola. Erano i carciofi non colti che si erano trasformati in fiore. Finalmente arrivò il tramonto ed i miei genitori rientrarono dai campi. Fra le altre cose quel giorno come gli altri, domeniche escluse, io avevo letto due pagine del libro Pinocchio. Era il compito per le vacanze. Prima di andare a dormire mio babbo controllava se avevo letto e mi faceva fare il riassunto. Poi mi faceva leggere alcune righe. Lui aveva fatto solo la seconda elementare, leggeva a fatica e mi diceva:’’osc-ia ormai tam pes aventi’’ (ostrichina ormai mi passi avanti). Con un dito segnava la riga dove leggevo ed avanzava con il pronunciamento delle parole. Quando incespicavo allora interveniva lui con fatica ed alla fine ne venivamo fuori. Vi faccio una confidenza: la favola di Pinocchio piaceva anche a mio babbo. Prova ne sia che quell’anno mi fece una sorpresa. Mi regalò un pinocchio di legno che aveva fatto costruire da un falegname di Calisese suo amico. Non era perfetto ma era bello.

Nessun commento:

Posta un commento