mercoledì 21 giugno 2017

La mietitura e la trebbiatura


"A ghè la machina a la Casassa!" Ecco il passa parola che si trasmettevano i ragazzini del vicinato in una bella e calda mattina d'inizio estate di circa mezzo secolo fa. L'attrazione era tale che piccoli e grandi accorrevano. Era la conclusione del raccolto agricolo più importante dell'anno, che aveva avuto inizio circa un mese prima con la mietitura, "cun al médar”, quando il frumento, seminato l'autunno precedente e ben curato durante tutta la primavera, era ormai ingiallito e fervevano i preparativi della mietitura: si arrotava la falce "as gusàva al sghet", si batteva con il martello la lama della falce fienaia "as batéva al fer da sgar", vi si montava il telaio per raccogliere le spighe, si preparava il posto sul fienile o sulla barchessa per riporvi i covoni, "i cov", oppure, se lo spazio non era sufficiente, si predisponeva un'area esterna dove accatastare i covoni, “al càvaion". Era un lavoro che richiedeva manodopera extra-aziendale e quindi si prendeva contatto con il caporale dei mietitori, “al capural dla coletiva”.

Il lavoro di mietitura cominciava la mattina presto, quando frotte di uomini e di donne tagliavano alla base le piante di grano e le affastellavano in covoni stretti con i legacci fatti da graminacee palustri, "i bals at pavéra”. A mano a mano si allineavano sul campo cataste di una decina di covoni in forma di croce, "as méteva in cruséta". Durante i lavori di mietitura le donne, giovani e vecchie, si coprivano da capo a piedi per proteggersi non solo dalla particolare polvere silicea del frumento che arrecava prurito e abrasioni, ma anche dal sole, perchè la pelle pressoché arrostita caratterizzava il contadino e ciò abbassava il livello sociale della persona "a sa sfigurava in cunfront ad li piàsaroti" ( si sfigurava nei confronti delle donne di paese). A proposito di tintarella, come sono cambiati i tempi e le mode! Un’altra nota di colore, che ricordo, era l'allattamento in campagna. La bracciante puerpera, infatti, aveva il permesso d’interrompere il lavoro per allattare il neonato che un componente della sua famiglia portava direttamente in campagna. La neo-madre si sedeva all'ombra, estraeva la mammella dal vestito impolverato, si girava per non essere osservata, con la saliva bagnava un dito della mano impolverata, puliva come poteva il capezzolo e lo introduceva in bocca al bambino che beatamente cominciava la poppata. Per il neonato iniziava presto la battaglia per la sopravvivenza: doveva prevalere su infezioni e malattie. Ricordo che mia nonna non dimenticava mai di far dono alle puerpere di qualche bottiglia di buon vino perché diceva che faceva "buon sangue" e di conseguenza, secondo il suo modo di vedere, tanto buon latte. Finita la mietitura, si ritornava nei campi con carri trainati da buoi o cavalli per riprendere i covoni, ormai ben essiccati, portarli in corte e accatastarli al coperto o nelle aree esterne predette. Solo dopo aver sgombrato i campi dai covoni, agli estranei era permesso andare a raccogliere (spigolare) le spighe rimaste qua e là tra le stoppie, "as pudeva andar a spigulàr". Quante famiglie aspettavano questo momento per raccogliere abbastanza frumento da trasformare in pane! Si riporta, di seguito, la spigolatura com’è descritta da Renato Campagnoli nel libro “ I téimp dal campàn”, edito a Sant’Agata Bolognese. La descrizione, che si adatta perfettamente anche alle nostre zone, è in stretto dialetto bolognese e la riportiamo tradotta:

Uomini, donne, ragazzi e anche bambini
partivano verso i poderi dei contadini
con addosso una certa attrezzatura
per difendersi dalle stoppie e dalla calura.
Perciò fazzoletti al collo a riparo dal sudore
manichette e calze per la stoppia che faceva bruciore
e poi un grembiule speciale fatto per l’occasione
per metterci dentro le spighe senza gambo.
Quindi la gente dalla mattina alla sera
raccoglieva il frumento per i giorni a venire
e dato che la situazione degenerava
c’era anche quello che si arrangiava.
La conta del quantitativo di spigolatura
la facevano al mulinetto dopo la trebbiatura
e felici e contenti del mucchietto
con la carriola andavano al mulino.

Finalmente, dopo un certo periodo di tempo, arrivava il turno della trebbiatura e quello era un giorno particolarmente intenso di lavoro e di attività connesse, tanto che i bambini del vicinato accorrevano a frotte per vedere arrivare la trattrice, “al Landini a testa calda” che trainava la trebbia, “al tibiatòi”, la pressa, "la pressa", e un tipico carretto, "la caratìna". Queste macchine operatrici erano allineate parallelamente al fienile o alla catasta dei covoni,”al cavajon”, si fissavano al terreno, "as tapava la machina", e si collegavano i volani con cinghie al fine di trasmettere il movimento generato dalla trattrice a tutte le altre parti mobili di trebbia e pressa. Nel frastuono assordante, ritmato dal “Landini”,iniziava un lavoro di squadra in cui ognuno aveva un ruolo preciso. Come tante formiche uomini e donne si muovevano in sincronia tra ordini secchi e perentori e nugoli di polvere .Si passavano i covoni delle cataste e li facevano giungere all'operaio addetto alla slegatura ed all'immissione delle spighe nel vano del battitore, “al batdor”. Era il meccanismo della trebbiatrice, costituito da una serie di cilindri a barre ruotanti a gran velocità che sgranavano le spighe. I chicchi, liberati dagli involucri fiorali passavano attraverso crivelli e correnti d'aria ed infine si accumulavano nei sacchi posti dietro la trebbiatrice. Gli involucri fiorali, ”la bula”, invece, cadevano sotto la macchina ed erano raccolti dalle donne con delle barelle e versati in una buca apposita, “ la busa a dla bula". La pula era utilizzata come lettime per gli animali in stalla. Gli steli della pianta erano invece espulsi, tramite gli scuotipaglia, ”i squàsapàia", allo scopo di recuperare fino all'ultimo chicco, e poi erano convogliati in una tramoggia della pressa disposta di seguito alla trebbiatrice. Era il movimento di questa macchina che più accendeva la fantasia dei bambini: assomigliava ad un pauroso animale fantastico e imbizzarrito, mostro solitario, che , sferragliando ,dall’alto abbassava il suo lungo collo dal becco adunco Era "la testa dal macàco" che comprimeva la paglia in senso verticale, mentre il carrello solidale al macàco (definito "infaldatore a testa di cavallo" in gergo tecnico-meccanico) la comprimeva in senso orizzontale. Si ottenevano così le balle di paglia, "li bòtuli", legate con fili di ferro. Caricate sulla schiena degli operai erano trasportate verso la costruenda catasta della paglia, "la butulàra".Appena il grano cominciava a piovere dalle bocche nei sacchi, si compiva la prima stima del raccolto: il proprietario e i vicini più autorevoli ne prendevano un pugno e, facendo scorrere i chicchi tra le dita , ne valutavano la pienezza ,il peso, la maturazione e si scambiavano pronostici sulla resa finale. I sacchi pieni di chicchi di frumento erano caricati sulle spalle degli operai più robusti e svuotati sull'aia, in caso che il frumento dovesse essere ulteriormente essiccato, oppure portati direttamente nel granaio. Quest'ultimo era normalmente localizzato nel sottotetto della casa colonica, sia perché più al sicuro da ruberie, sia per meglio proteggerlo dalle atavicamente temute inondazioni del Po.

Lo scrittore Alfredo Panzini descrive le comitive di trebbiatori che seguivano da una corte all’altra gli spostamenti della trebbiatrice:

“ ecco la squadra di braccianti, uomini e donne, con le forche, con le bisacce, con le biciclette: arriva nell’aia precedendo la trebbiatrice. Scamiciati, discinti, qualche gamba fasciata, ubriachi di caldo, di fatica e di sudore. Cappello piantato in testa. Sembra un’orda di occupazione armata.

- dove piantiamo la bandiera? Piantano la bandiera tricolore sulla siepe.

Le facce dei contadini sono pacate, aperte, e se ne trova qualcuna anche molto intelligente: le facce di costoro sono torve, aggrondate, chiuse.

E’ dall’alba che questa gente lavora nel polverone, sotto il sole implacabile, dietro la trebbiatrice: e finito un podere si riversano come un ciclone sopra un altro podere.

Fischia la macchina, il motore da alcuni scoppi, accelera come una mitragliatrice: in cima al cumulo, s’affaccia il primo lavoratore che toglie la croce e butterà il primo covone nella trebbiatrice. La trebbiatrice si scuote, si squassa: cominciano a ballare i telai, eruttano fiotti di paglia. La gente accorre ai posti di combattimento: altri si dispongono sulla piattaforma, altri con le altissime forche si apprestano a elevare il pagliaio.

Le ragazze, con un serraglio di canne, si distendono su le corde nello sforzo di trainare la pula che la macchina depone più in basso”. (ndr: si tratta di una descrizione che si riferisce alla zona marchigiana e vi ritroviamo usi particolari come la bandiera, la croce infissa a protezione sul cumulo di covoni ed il pagliaio fatto con paglia sfusa.)

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