domenica 18 dicembre 2016

IL MATRIMONIO DEL FIGLIO DEL CONTADINO POLDO di Fiorenzo Barzanti


Lo spettacolo era niente male. Sapete chi era l’architetto che aveva progettato il tutto? Proprio il contadino Poldo. Dunque, sotto il grande portico della casa era stato allestito un palco a gradini fatto con cassette di legna della frutta. Sopra era stato messo un lenzuolo bianco. Partendo da sinistra era esposto un bellissimo servizio di piatti da 12 bianchissimi. C’ero quelli piani, quelli ‘’covi’’e i piattini per il dolce. Sopra c’era un biglietto grande con la scritta ‘’auguri agli sposi da zia Adele’’. C’era poi una bellissima scatola di colore blu aperta a metà. All’interno era rivestita di velluto rosso ed era divisa in scomparti: 12 cucchiai color acciaio, 12 forchette, 12 coltellini, 12 cucchiaini. Sopra un biglietto con la scritta ‘’famiglia Zonzini’’. Era poi la volta di una confezione di coltelli di varia misura con l’aggiunta di un cavatappi. Era il regalo delle sorelle Alda e Concetta. E che dire del bel servizio da caffè? 6 tazzine, 6 piattini, 6 cucchiaini, la zuccheriera e la teiera con la scritta ‘’un amico che vi vuole bene’’. Ed ancora un altro servizio di piatti da 6 colorati e con disegni di selvaggina. E che dire di quella grande busta con scritto: lire 20.000 dallo zio Filippo? Bisbigliò la Gigliola ad un’amica: ‘’ u sé sfurzè cun tot chi baioc cla’’ (si sarà sforzato con tutti i soldi che ha). Nella seconda gradinata c’era una bellissima scatola da corredo aperta. Faceva bella mostra una camicia da notte bianca con gli orli di pizzo rosa e la scritta ‘’le amiche Rossella e Linda’’. Poi un lenzuolo ricamato bellissimo. Un’altra busta con i soldi, una ‘’cucuma’’ del caffè, un macinino per il pepe, una confezione di bicchieri da 6. E tanti altri regali. Gli invitati vestiti a festa guardavano, si soffermavano e si complimentavano. Come avrete capito era arrivato il grande giorno del matrimonio del figlio del contadino Poldo. Voglio riassumervi alcune usanze che si osservavano per i matrimoni. Di norma la sposa andava ad abitare a casa del marito. Nella fatidica giornata venivano messi in bella mostra i regali ricevuti dai due sposi. La visione era fatta di mattino verso le 9 prima della funzione delle 11. Per l’occasione veniva fatto un rinfresco abbondante, chiamiamolo colazione. Babbi il fornaio che aveva il forno a Diolaguardia e che portava il pane ai contadini, aveva lavorato tutto il sabato notte. La mattina di quella domenica era arrivato nell’aia di Poldo con il suo furgoncino. C’erano molti filoni ciambella ancora calda guarniti con chicchi di zucchero colorato. Una montagna di bracciateli, biscotti da forno normali e in parte anche color cioccolata. Tutto quel ben di dio era stato esposto su un grande tavolo nell’altra parte del portico insieme a bottiglie di sangiovese e albana dolce. C’erano pure due bottiglie di marsala, una di vermut, due di Zabov, una di Ferrochinabisleri, una di nocino fatto in casa, tre vasetti di ciliegie sotto spirito. Gli invitati guardavano i regali, mangiavano la ciambella e salivano la scala ripida per visitare la stanza degli sposi. Anche questo faceva parte della tradizione. Il letto era perfetto e le lenzuola ricamate donate dalla zia Norina erano splendide. In mezzo al letto c’era una bellissima bambola. Ai piedi del letto un tappetino fatto all’uncinetto, dono della zia suora missionaria in Africa. Disse il contadino ‘’Bin ad Varen ’’ a què stanota us civa’’ (non traduco perché la frase è volgare ma molto in uso a quel tempo). La moglie stizzita lo richiamò all’ordine e disse a voce alta: ‘’sta zet brot spurcacion tam fe sempra vargugnè’’ (stai zitto brutto sporcaccione, mi fai sempre vergognare) e lo tirò fuori dalla stanza. Una parola sugli invitati. Quelli convenuti sin dal mattino erano quelli speciali, parenti stretti e amici particolari. Loro si sentivano i privilegiati rispetto agli altri che si sarebbero aggiunti nella funzione delle 11. Erano tutti vestiti a festa e freschi di barbiere o parrucchiera. La parrucchiera (barbira) era una brava ragazza del paese che andava a bottega in città per imparare il mestiere. Non era pagata e quindi raggranellava qualche soldo ‘’facendo’’ i capelli alle donne del paese. Suggeriva le pettinature giuste ed evitava che ce ne fossero due uguali. Solo la Celeste aveva preteso il suo solito ‘’concio’’ a strati ed altissimo che più che un albero di natale sembrava un pagliaio. Le pettegole bisbigliavano ‘’ la camena dreta sinò la s’arborta’’ (deve camminare dritta altrimenti si sbilancia e cade per terra). Comunque, chi intratteneva gli invitati era Poldo che era un perfetto padrone di casa. Tutti gli facevano i complimenti per l’orologio nuovo e gli chiedevano se per caso i giorni prima fosse caduto. Infatti il brav’uomo zoppicava vistosamente. La colpa era delle scarpe troppo strette che la moglie Maria gli aveva fatto comprare e che gli facevano provare le pene dell’inferno. Lui rispondeva serafico: ‘’Sa ciap Pirro ai tir e coll’’ (se prendo Pirro, il titolare della bancarella delle scarpe, gli tiro il collo). Ma vi chiederete, e gli sposi? Dove sono finiti? E’ ora di parlarne. Siamo alla fine degli anni 50 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato da famiglie contadine. La mia era una di quelle ed io ero un bambinetto al quale sono rimasti impressi alcuni ricordi. Francesco, unico figlio del contadino Poldo e della moglie Maria, era un ragazzone di circa 20 anni. Era sempre solare e sorridente. Mentre lavorava nei campi fischiettava, anche di lunedì mattina quando i giovani di solito portavano il muso lungo. Il vicino da casa era il contadino soprannominato Pacion che aveva un fratello che abitava nella ‘’pianura’’ di Ravenna, anche lui contadino. Il fratello aveva una figlia di circa 18 anni che studiava da ragioniera e che tutti gli anni passava due mesi in estate dallo zio in collina. Si chiamava Marina ed era una bellissima ragazza bionda con una carnagione bianchissima. Le donne del paese dicevano: ‘’la iè fanina e l’ha ià una bela carnason, us veid cla ven da la pianura’’ (E’ molto fine ed ha una bella carnagione, si vede che viene dalla pianura). La ragazza era allegra ed aveva fatto amicizia con le altre ragazze del paese. Inutile dire che aveva moli spasimanti e corteggiatori. Marina e Francesco si conoscevano da anni ed improvvisamente scoppiò un amore furioso e senza limiti come a volte fortunatamente accade. Non vedevano le difficoltà, uno contadino e l’altra quasi ragioniera, uno in collina e l’altra nella lontana pianure. Con grande gioia e spensieratezza annunciarono ai genitori l’evento ed anche il fatto che lei era incinta. Tutti gli altri spasimanti rimasero con un palmo di naso e furono comunque invitati al matrimonio perché erano tutti amici. Quella domenica la chiesa era piena come un uovo. Molti parenti arrivarono da Ravenna e scherzavano con i parenti locali per il dialetto lievemente diverso. Per esempio nelle colline cesenati ‘’bambino’’ si dice ‘’burdèl’’, a Ravenna si dice ‘’tabac’’. Poldo era molto emozionato mentre accompagnava il figlio all’altare e per colpa delle scarpe strette zoppicava vistosamente. Il babbo della sposa ‘’si stimava’’ ad accompagnare la bella ragazza all’altare soprattutto perché era molto allegra e sprizzava simpatia da tutti i pori. Il prete che era un pochino ‘’incarognito’’ perché una famiglia era repubblicana e l’altra comunista e perché la ragazza era incinta, dovette fare buon viso a cattivo gioco perché la zia suora missionaria in Africa aveva inviato una bellissima lettera di auguri che fu letta in chiesa. Fu concesso al fisarmonicista Armandin di intonare ‘’la marcia nuziale’’. Per la verità il buon uomo era un contadino che aveva ereditato la fisarmonica dal nonno e faceva quel che poteva. Era un autodidatta ed andava ad orecchio con risultati spesso deludenti. Comunque si sbizzarrì abbondantemente durante il pranzo nuziale e nel pomeriggio sull’aia. Non vi annoio oltre se non per ricordarvi il taglio della cravatta. Era usanza, a fine pranzo, togliere la cravatta allo sposo e tagliarla in molti pezzettini che venivano adagiati su un piatto. Un parente passava con il piatto in mezzo agli invitati che in cambio di un pezzetto allungavano qualche moneta. Il contadino Pio era famoso per essere un gran tirchio e la gente diceva: ‘’par un scud e vendareb la su ma’’ (per 5 lire venderebbe sua mamma). Bene, Pio appena vide che stava passando il piatto disse che era stato assalito da un improvviso mal di pancia e si allontanò. Il caso volle che al suo rientro il fisarmonicista Fernandin si avvicinasse con un pezzetto di cravatta e gli dicesse ‘’tpanseva ad vela scapeda’’ (pensavi di averla fatta franca). Il brav’uomo dovette sganciare 100 lire. Termino dicendovi come andò a finire la storia. La Maria che era la suocera trattava i due sposi come due figli ma la situazione non poteva durare. Una ragazza ragioniera relegata in campagna a non fare niente ed il ragazzo che soffriva per quella situazione. Alla fine accadde che Francesco trovò lavoro come facchino al mercato ortofrutticolo di Cesena, la ragazza grazie alla raccomandazione del vescovo trovò lavoro presso una banca di Cesena. Andarono ad abitare in Città in un appartamento preso in affitto. Furono i primi segnali dell’evoluzione della vita contadina, l’abbandono della coltivazione della terra per i nuovi mestieri.

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