In campo musicale, l’invenzione del monaco benedettino Guido d’Arezzo (XI secolo) era destinata a cambiare il modo di fare musica. Guido, notando la difficoltà che i monaci avevano nell’apprendere e ricordare i canti gregoriani e il ritmo della musica, inventò il tetragramma: il rigo musicale composto da quattro linee orizzontali parallele. Esso è il predecessore del pentagramma, il rigo di cinque linee utilizzato nella notazione moderna. Sul tetragramma Guido annotò i segni delle note, tutti uguali fra loro ma che assumevano un significato differente a seconda della collocazione sulle righe o negli spazi fra riga e riga. Le note erano sei e vennero chiamate ut, re, mi, fa, sol, la, dalle iniziali dei versi della prima strofa dell’inno a San Giovanni Battista di Paolo Diacono, Ut queant laxis, che il nostro monaco utilizzò come memorandum per i suoi allievi; il nome della nota si fu aggiunto solo nel Cinquecento, e nel secolo successivo il teorico della musica Giovanni Battista Doni cambiò il nome dell’ut in do. Le note erano rappresentate da Guido con dei quadrati ed erano tutte di uguale durata. L’introduzione delle figure di durata è dovuta a Francone di Colonia, cappellano papale, a metà del XIII secolo. Sempre a Guido si deve il sistema mnemonico detto “mano guidoniana”, che non inventò, ma utilizzò e diffuse. Secondo tale sistema, sulle punte e sulle falangi delle dita della mano sinistra venivano indicate le note e le scale nel proprio ordine di successione.
La musica ed il canto teorizzati da Guido d’Arezzo sono in realtà l’unico linguaggio comune dell’umanità che non ha necessità di traduzioni per tutti i popoli del mondo.
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