domenica 30 luglio 2017

I RAGAZZI CORSI di Dana Carmignani


Per questo pomeriggio afoso, che ci costringe in casa, ci può fare compagnia uno dei deliziosi racconti di Dana, ambientati nella campagna toscana dei suoi nonni, dove Dana è cresciuta e dove è tornata ad abitare , in una bella casa accogliente!

“Arrbeereeeeee….”… gridava quella pora donna di Maria dal suo uscio verso… verso non si sa cosa… chiamava issunipote… o meglio uno dei suoi nipoti, dei due che erano arrivati da Bastia, per passare le vacanze. Jeanclaude… era più facile, veniva chiamato semplicemente Claudio, ma il fratello più grande, Albèrt, rappresentava per lei una difficoltà fonetica insuperabile e allora lo chiamava alla francese, ma come si fa noi toscani che si cambia la “L” in “R”, almeno qui, in questa zona, e poi, sempre come si fa noi, ci metteva la finale… Oscar per noi per esempio è assolutamente “ Oscare”… per cui Alberto… diventava alla fine “Arbere”

Jeanclaude e Albèrt quell’anno rappresentarono una novità. Una novità positiva nella nostra brigata di bimbetti, perché erano due in più, ma non di quelli stitici e difficili di carattere… perfetti! Erano abituati a tutto, e tutto sapevano fare. Intraprendenti, intelligenti, vivaci… bello era giocare con loro e infatti ci divertimmo per una estate che sembrò non finire mai, e poi ci raccontavano in un italiano misto fra il francese e il corso, della loro isola, della sua meraviglia, e io non riuscivo a figurarmi quelle bellezze che poi si invece da grande avrei visto. Il mare, dicevano era stupendo, niente a confronto di questo, dicevano... dicevano che loro i pomeriggi prendevano semplicemente un asciugamano e andavano in spiaggia, difatti eran neri come carboni, anche se di capelli eran chiari tutti e due.

Nella nostra corte, così si chiamano da noi, quei posti dove ci sono più case attaccate dove risiedono diverse famiglie… eravamo già una serie di due bimbetti per uscio per un numero che variava da sette o otto, che con l’aggiunta dei due ragazzi corsi, raggiungeva il numero di dieci o dodici figlioli. Un bel branco, che le nonne facevano fatica a destreggiare, sicchè era un urlìo giorno e notte perché non n’aveano verso.

Ad un certo orario alla sera, Maria, la Rosa, la mi nonna, l’Alaide, sortivan fori dall’uscio, si asciugavano le mani sul grembiale e si cominciavano a sgolà, ognuna chiamando i propri nipoti, osservando l'orizzonte,con la mano sulla fronte, come tanti indiani che osservano la prateria.

“ Ma ‘ndò saranno iti queddiavoli!”… si dicevano una con l’altra.
Noi si usciva fuori, come apparizioni, come in quel film dove ci sono i giocatori fantasmi che entrano ed escono dai campi di granturco, solo che noi potevamo essere da tutte le parti, non solo nel granturco… si arrivava laceri, sporchi, sudati accaldati ma contenti… e la maggioranza delle volte si buscavano.
In quei campi di granturco o di grano o in quei prati un po’ lontano, eran le nonne per prime che ci mandavano perché quando s’era intorno casa un ne potean più… “Andate a gioà laggiù.. vai…”ci dicevano indicandoci distese più distanti dove non si avrebbe dato noia a nessuno… e noi s’andava… e non solo laggiù, come dicevano loro, ma esploravamo posti che non si conoscevano, ci infiltravamo nel bosco, e oltre ancora fino alla discesa, dove con le biciclette ci buttavamo a capofitto per vedere chi arrivava prima dall’altra parte della salita… che gioco! Pericoloso anche, ma i giochi eran tutti pericolosi… si rubavano funi e attrezzi dalle stalle, si usavano accette e coltelli per fare gli indiani. Ci si legavano ad una coscia con un cordino, come si vedeva nei film e poi si gattonava fra l’erba col passo da leopardo, altro coltello in bocca, dandoci gli acciuffi come gatti. Oppure, le corde, si legavano agli alberi e ci spenzolavamo sul rio, come Tarzan nella giungla.

Eravamo scapestrati e indipendenti e ci credo che le nonne si preoccupavano. Preoccuparsi era invece per noi l’ultima cosa che ci interessava, non ci fermava niente… sole, caldo… niente…io ho ricordi di gocciole che mi cadevano addosso dalla fronte e mi chiedevo perché, nemmeno capivo che sudavo, non me ne importava … l’unica cosa che m’importava era giocare e giocare, e alla sera mi addormentavo velocemente, esausta, sperando che arrivasse subito mattina, per ricominciare da capo.

Non avevamo uno spazio, tutto lo spazio era nostro. L'aia diventava un buon posto per giocare a nascondino, Il pozzo , le cataste di legna, il monte dei sassi, la capanna, la legnaia, angoli e muretti, diventavano ottime tane per noi che senza curarci dei ciottoli correvamo a “poma” fino al muro della mia casa che soprattutto al pomeriggio su quello spazio dava ombra... poi si saliva nella cascina, il nostro spazio riservato per certe giornate... si isolava dai grandi tirando su la scala, e ci stavamo a giornate giocando a carte o ad altri giochi più tranquilli.

E la notte... oh la notte era ancora meglio. Dopo le giornate afose, ci facevamo mancare la freschezza della sera? No certo. Giocare la notte era ancora più bello, mentre i vecchi chiacchieravano davanti l'uscio. Spesso usavamo il buio per sgattaiolare ad uno ad uno dalla sorveglianza e ci davamo per campi e prode dietro casa. Attraversando prati e vigne, si arrivava fino al paese. Che avventura! Si tornava a casa che nemmeno i vecchi se n'erano accorti, o appena in tempo prima che se ne accorgessero, prima che un silenzio non convenzionale li facesse allarmare.

Ma l'anno dei ragazzi corsi, oltre a tutti nostri soliti punti di riferimento di giochi giornalieri, ne avemmo un altro, e fu proprio quello che diventò protagonista di un accadimento rimasto indelebile nella storia del nostro immaginario.

Avevamo acquisito, con l'arrivo di Alberto e Claudio, anche la casa loro, la casa di Averardo, il nonno, il vecchietto che diceva il maggio, e tutti gli spazi intorno che fino ad allora non avevamo visto mai, compreso la parte alta della casa.
Diversa dalle altre, quella di Averardo presentava un altezza un poco superiore, e sopra si apriva un terrazzo. 

Ispezionando la casa, con i due ragazzi, un pomeriggio arrivammo fino all'ultimo pianerottolo, lì al muro c'era un altra scala a pioli che saliva ancora su, inutile dire che salimmo tutti... “ Te tu sarai stata la prima...ti 'onosco io !” - mi disse nonna poi... tanto un la potevo condì … perchè era vero figuriamoci se mi facevo scappare un occasione così.

Si salì dunque tutti sul terrazzo e... che meraviglia! Che apertura! Che bello la campagna intorno vista da là sopra! Lo sguardo arrivava fino alle case de' Pepori, e si vedeva fino al bosco della Margine. I cavalli de' Simoncini sembrava di toccarli nei recinti tanto parevano vicini, e si potevano vedere le distese dei prati di Raffaello, dove il giorno si andava a giocare... e che visti da lì si capiva perchè li chiamavano “le prata”...ma non ci bastò.... il tetto ad un metro di distanza era troppo allettante, scavalcammo il muro e salimmo in cima, solo Delia non venne, ma io, io subito coi maschi, e insieme a loro, in fila indiana sulla cresta, arrivai al camino... ci si girava intorno al camino e si saltellava come grilli per quell'improvviso esubero di libertà e sensazione di volare in cielo... e certo in cielo potevamo volarci davvero, bastava un piede messo male, un improvvisa mancanza, macchè chi ci pensava, anzi si saltava da una parte all'altra urlando.... e quello ad un certo punto fece la Rosa, la nonna di Delia e Walter, che era a fa' l'erba nel campo...urlò...ma noi, come in un film muto vedemmo solo l'immagine di lei che quando ci vide, si portò le mani alla testa, poi buttò falciotto e corbello da una parte, si chiappò le vesti con le mani e scappò a gambe levate verso casa... noi tranquilli come se niente fosse, ci eravamo sbracciati a salutarla gridando, ma ad un certo punto ci venne un dubbio che quella corsa improvvisa non fosse per il nostro benessere, quindi si scappò... fu un fuggi fuggi generale, mentre si sparse la notizia e i nostri vecchi uscivan fuori per acciuffarci....
Solo io me le scansai, e Alberto e Claudio, perchè Maria era bona come nonna, ma nell'altre case, fu tutto un belà fino a sera. Per qualche giorno ci controllarono anche troppo e qualcuno di noi per un po' non si vide, ma poi la vita riprese il suo corso regolare, e l'estate continuò calda e frenetica come sempre era la nostra estate.

Alla fine di settembre un taxi riportò via Alberto e Claudio, così come li aveva portati. Partivano col battello, come dicevano loro e dovevano attraversare il mare, come ci avevano raccontato nei loro racconti. Non li ho rivisti mai, anche se qualche volta da grandi son tornati, ero io che non abitavo più qui, e poi, come diceva la su' nonna eran diventati de “ pezzi grossi”... perchè loro, sempre come diceva lei, avevano fatto le scuole “erte”... che tradotto significa alte, avevano studiato infatti. So che sono diventati due ingegneri e stanno ora uno a Parigi e uno a Marsiglia, ma è bello pensare che un vissuto rimane … rimane nei ricordi e anche nelle concretezze.
Se andate in Corsica, quando arrivate a Bastia col traghetto, sulla piazza S. Nicolà potete andare a mangiare da “ Chez Raugi” che detto alla francese è Rogì, che è il posto che ancora esiste della famiglia di Alberto e Claudio, che il nonno Averardo aveva aperto proprio lì.

Quando vado in Corsica ci passo sempre, mi piace vedere una parte delle radici del posto che si sono ricreate altrove e anche se non hanno il mio nome, fanno parte un po' di me. Mi piace ricordare anche in questo modo l'estate trascorsa con Alberto e Claudio i ragazzi corsi... una delle più belle estati della mia vita.

Nella foto davanti al carretto dei gelati, io con Claudio, uno dei ragazzi corsi, in quella famosa estate

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