giovedì 9 febbraio 2017

PIOVE di Dana Carmignani


Stamani c'era un aria particolare... un aria che in questo periodo freddo c'è sempre stata se piove. 

Il cielo è grigio, zuppo d'acqua, come i campi allagati e il rio che scorre in fondo. E quando ho aperto l'uscio, ho respirato la stessa aria di quando partivo con la bicicletta per andare a scuola.

I ricordi di quei momenti sono vivissimi, come i dolori alle ossa che... sento adesso e che partono forse proprio da quei momenti e da tutto l'umido e il freddo che ho patito.

Spesso arrivavo a scuola fradicia e mi ritrovavo appiccicata alla stufa in camiciola di flanella e calze di lana. Mi divertiva (quando mai non mi sono divertita) la situazione della classe vista da quella angolazione, dalla parte della maestra, e mi metteva in una condizione di privilegio rispetto agli altri. La maestra si preoccupava solo di me!

La situazione accadeva spesso, e non solo con me... erano parecchi i bambini che arrivavano persino a piedi tagliando per i campi.... al massimo su biciclette sgangherate o da grandi, io già adoperavo quella di mia sorella, e non arrivavo nemmeno ai pedali. 

La scuola era fredda, o meglio era riscaldata appena, da una stufa in terracotta. In ogni classe ce n'era una che veniva accesa ogni mattina da un omino addetto a questo compito, ma non si può certo pensare al caldo di adesso. Mi ricordo la maestra sempre appiccicata a quella stufa, dove ogni tanto inseriva dei pezzi di legno. 

Noi eravamo coperti, noi, perchè i bambini, tranne qualcuno che arrivava da famiglie più ricche, erano tutti come me, abituati a stare al freddo, e quindi ingolfati in strati di panni e maglie rigorosamente fatti a mano. Nonna mi metteva per l'inverno, la “maglia sulla carne” , chiamata così proprio perchè si indossava sotto sulla pelle. Era fatta di lana di pecora e con ferri piccoli piccoli. 

In quelle serate buie che mi ricordo io, nonna e queste donnine vicine, non facevano altro che sferruzzare. Non avevano bisogno di luce perchè ormai facevano quel lavoro come bevessero un bicchier d'acqua. Lavoravano con cinque ferri con le punte da tutt'e due le parti, ogni tanto ne pigliavano uno, se lo infilavano in capo nella crocchia dei capelli, e andavano avanti, poi lo ripigliavano e andavano avanti un altro po'... e ne toglievano un altro e così via, facendo un lavoro a tutto tondo, e preparando quasi sempre proprio quelle maglie di sotto, che indossavo anch'io e che bucavano da morire.

A volte ne mettevo anche due una sull'altra, poi sopra avevo una sottanina di pilorre. Si chiamava così una stoffa di cotone felpato che era usato proprio per questo scopo, perchè caldo come tessuto, e dello stesso erano quasi sempre le mutande. La maglia sulla carne copriva bene i reni, giù fino alle natiche, e sopra si infilavano le mutande, che non erano certo quei fili interdentali che usano adesso, ma quasi ascellari permettevano di infilare dentro il tutto e tenerlo ben fermo.

I figlioli parevan tutti dei fagotti.... fino alle cosce, perchè invece, maschi e femmine, lì erano scoperti. Ginocchia fuori, sia per gli uni che per le altre, e naturalmente calzerotti sempre di lana, e sempre fatti a mano. Sulla sottanina dunque e sopra tutte queste altre cose, portavo una gonnellina a pieghe, la camicina di flanella, un grosso maglione e poi il cappotto.

Non c'erano giacconi a vento o altro tessuto, no, c'era quello, e se pioveva come oggi, c'era la mantella incerata che si allargava fino a coprire anche manubrio e cartella, ma non parava ciò che arrivava da sotto, e da quelle bozze d'acqua che si formavano sul percorso, e che noi ragazzi invece di evitare, infilavamo divertendoci, facendo a gara a chi schizzava meglio.

Arrivava a scuola un esercito di ragazzi bagnati che la maestra doveva accudire come una madre. Lei con una pazienza infinita ci spogliava e poi ci metteva attaccati a quella stufa con tutti i nostri panni sopra, finchè sia noi che i vestiti non erano asciutti. A volte ci passavamo tutta la mattina, e poi naturalmente tornando a casa capitava la stessa cosa, ma quello non contava, il bello era farsi coccolare dalla maestra.

E poi a casa, la maggioranza di noi, non era certamente seguito, con tutto quello che all'epoca la gente aveva da fare, la maggior parte dei ragazzi era lasciata a se stessa.

Si stava fuori tutto il giorno, bagnati o accaldati a secondo delle stagioni, e secondo come era andata, alla sera quando rientravi le raccattavi anche, quindi quando succedeva quell'accadimento, approfittavo di quel momento per sentirmi protagonista di un sentimento di protezione al quale aspiravo tanto, e che, nonostante nonna, tanto mi mancava.

Rimanevo lì con la mia maglia di lana e con la sottanina, seduta sulla seggiola grande, attaccata a quella stufa, con i piedi scalzi, che non toccavano terra, ad osservare i miei compagni, che chini su banchi di legno, osservavano me, che mi gongolavo a quel calore e a quello del foulard, che la maestra si toglieva dal collo e attorcigliava alle mie ginocchia.... e che non era come la pezzola grigia che nonna si metteva in capo, ma era morbido e liscio, e, ebbene si ... profumato!

Non sentivo più niente. Percepivo benissimo, oltre al caldo di quella terracotta, tutto il calore che quella donna nutriva per noi... e mi passava tutto.

Nella foto, che non mi rende giustizia con quei capelli rapati, io in terza elementare

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