... racconto autobiografico, questo di Fiorenzo Barzanti, che rammenterà a tanti la difficoltà che si trovava a scuola un tempo, quando in famiglia si parlava solo in dialetto e si doveva imparare alla svelta ad aver a che fare con quella lingua sconosciuta che era l'italiano ...
Questa è la storia di un bambino che non sapeva parlare in italiano ma solo in dialetto, che non sapeva scrivere se non con grandi strafalcioni, che sapeva leggere a fatica seguendo le righe con il dito, che sapeva appena fare di conto perché suo babbo contadino analfabeta aveva bisogno di calcolare i ricavi della merce venduta al mercato.
Se qualcuno di voi inizia a fare ‘’e zapal’’ e gli scende una lacrima, è pregato di asciugarla in fretta perché questa non è una storia triste ma a lieto fine. Gli attori sono diversi: i genitori del bambino, il prete della parrocchia, il funzionario del partito comunista, la maestra della scuola elementare, l’omino dell’anagrafe. Dire che il bambino è l’interprete principale è inesatto, diciamo che è il soggetto attorno al quale l’autore ha ricostruito il modo di pensare di quel tempo, le usanze, le tradizioni, le convinzioni ed i sintomi evidenti di una società contadina che stava cambiando. A proposito, lo sapete cosa significa ‘’fare e zapal?’’. Si dice di una persona che incrina il labbro superiore (zapal) a forma di beccuccio ed è sul punto di commuoversi o di piangere. Scusate la digressione. Comunque quel bambino ero io. Dunque, siamo nei primi anni del 1960 ed era una splendida giornata estiva. Verso sera nella bella aia della nostra casa contadina si ritrovarono casualmente alcuni personaggi. Discutevano amabilmente sotto l’ombra di una quercia davanti ad un fiasco di sangiovese. Erano seduti alla meglio su sedie traballanti. C’era il prete Don Antonio imponente ed austero, di solito a quell’ora faceva il suo giretto per il paese con il sigaro in bocca, faceva volentieri sosta a casa nostra ed era grande amico di mio babbo. C’era un funzionario del partito comunista, Suzzi, che doveva tenere un comizio in paese la domenica successiva e che da bravo politico era venuto a trovare mio babbo per conoscere i fatti accaduti nell’ultimo mese e poter fare quindi bella figura. Era un uomo molto simpatico, faccia larga, denti radi e sempre sorridente. C’era la maestra della scuola elementare Guiducci, gran bella donna con due splendide gambe, che ogni tanto ci veniva a trovare per acquistare o meglio farsi regalare una dozzina d’uova. C’era poi il così detto ‘’omino dell’anagrafe’’. Era molto conosciuto a Cesena. Stazionava tutte le mattine vicino all’ufficio anagrafe del comune di Cesena (in fondo alla scalinata che porta alla Rocca Malatestiana). Tutti lo sconoscevano, era seduto dietro un tavolinetto ed aveva perennemente il bocchino della sigaretta in bocca. Era simpatico e faceva da consulente a coloro che si recavano in comune per espletare qualsiasi pratica, in modo particolare ai contadini che provenivano dalle campagne. Utilizzava una penna stilografica ed aveva una pila di fogli bianchi, vendeva pure le marche da bollo. Dai contadini si faceva pagare in natura. Lo vedevi arrivare nel pomeriggio e ripartiva con una dozzina di uova, una mezza gallina, un quarto di coniglio. Quando in campagna annusava un affare nel quale lui poteva avere una qualche parte, era prontissimo a dare il suo contributo. C’era ‘’Luis ad Branchetti’’, quello che potremmo definire ‘’ lo scemo del paese’’. Era un bravo ragazzo di circa 30 anni ma ragionava come un bambino di sei anni. Tutti lo coccolavano. Quando vedeva un gruppo di persone lui si intrufolava sempre, ascoltava, rideva ma non dava alcun fastidio. C‘era mia mamma che era appena tornata dal campo con un fascio d’erba sulle spalle per i conigli. C’era mio babbo grande intrattenitore, di fede comunista ma stimato da tutti in paese perché considerato un uomo giusto e sopra le parti. Veniva spesso chiamato per comporre liti o per aggiustare situazioni prima che sfociassero in denunce. C’ero infine io che di solito giocavo nei dintorni ma quella volta ero attento perché era presente la mia maestra e soprattutto perché ero l’oggetto della discussione. Quando si riuniva quel gruppo a casa mia, magari con componenti di volta in volta anche diversi, gli argomenti della discussione erano vari. A volte si parlava di politica ed allora il prete, gran democristiano, sosteneva che nell’Unione Sovietica la gente moriva di fame ed i preti venivano incarcerati. Interveniva Suzzi dicendo che la rivoluzione socialista aveva portato al potere il popolo e che la proprietà privata era stata eliminata. La discussione diventava molto vivace ed allora interveniva mio babbo che pur essendo di parte diceva ‘’enca in Rossia in liga i chen cun la zunzeza’’ (neppure in Russia legano i cani con la salsiccia). Tutto finiva con una bicchierata. A volte mia mamma andava a fare velocemente due piadine, mio babbo affettava un salame e la discussione filava via che era un piacere. Comunque quel giorno il quesito era questo: io avevo appena terminato la scuola elementare, dovevo continuare gli studi oppure no? Siamo all’inizio degli anni 60 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato prevalentemente da famiglie di contadini mezzadri. La mia era una di quelle ed io ero un bambino al quale sono rimasti impressi molti ricordi. Dovete sapere che sino alla fine degli anni 50 i figli dei contadini, dopo avere terminato la quinta elementare, non proseguivano gli studi tranne casi eccezionali. Le motivazioni erano diverse. Chi avrebbe garantito il lavoro nei campi e quindi il sostentamento della famiglia? I padroni dei poderi non accettavano un contadino che avesse intenzione di mandare i figli a scuola perché non vedevano garantita la forza necessaria per lavorare i campi. Molti erano fatalisti nel senso: è sempre stato così e così deve essere, i figli dei medici dovevano fare i medici, quelli dei notai i notai e così via. Il discorso riguardava soprattutto i figli maschi perché le figlie si sarebbero sposate e sarebbero comunque uscite di casa, ma neppure a loro era concesso di proseguire gli studi. Dovevano invece imparare a fare bene i lavori di casa ed al massimo ad imparare un mestiere come sarta, magliaia, parrucchiera. C’era poi la difficoltà di raggiungere la città dove si trovava la scuola media. All’inizio degli anni 60 iniziò una lenta inversione di rotta. I Governi avevano introdotto l’obbligatorietà di frequentare la scuola media che comunque pochissimi osservavano. Il Comune di Cesena aveva introdotto il trasporto gratuito dalla campagna alla città. I funzionari comunisti e quelli della Camera del Lavoro giravano per le campagne e spiegavano ai contadini l’importanza di mandare i figli a scuola almeno fino alla terza media. Per farla corta quel giorno tutti conclusero che era bene che io frequentassi la scuola media. Il più agguerrito era mia babbo che sosteneva che anche i figli dei poveri dovevano poter progettare i ponti, fare interventi chirurgici, insegnare a scuola ed anche l’Italia ne avrebbe tratto vantaggio. Il dado era tratto. L’omino dell’anagrafe colse la palla al balzo e la settimana successiva si presentò a casa nostra con due grandi libri che naturalmente mio babbo gli pagò con una cassetta di pesche. Disse che per potere continuare gli studi era bene che io cominciassi a leggere dei libri per allenarmi e lui sarebbe venuto alla fine dell’estate a chiedermi il riassunto. Fu per me un sacrificio enorme e vi confesso che nella mia vita ho letto in seguito molti libri ma ce ne sono due molto famosi che conservo, che odio e che non leggerò mai più: La capanna dello zio Tom e L’ultimo dei mohicani. Erano appunto i due che mi aveva dato l’omino dell’anagrafe. La scuola iniziava ad ottobre, vi erano tre possibilità, iscrivermi alla scuola media tradizionale oppure all’avviamento industriale oppure alla scuola nuova media unificata (che poi è diventata l’unica ed attuale scuola media). Mi iscrissi all’avviamento industriale perché per scaramanzia se non fossi stato bravo avrei imparato anche un’attività manuale. Acquistai tutti i libri dalla libreria Bisacchi e li firmai tutti nella prima pagina. Il primo giorno di scuola scoprimmo che c’erano due rientri settimanali e non c’era la corriera al pomeriggio. Subito dietrofront e mi iscrissi alla scuola media unificata. Non vi dico la faccia della signora Bisacchi della cartolibreria quando le chiedemmo di cambiare tutti i libri. Alla fine accettò ma l’operazione costò a mio babbo molta frutta in regalo per tre anni. Quindi a San Tommaso fui il primo ed unico bambino di famiglia contadina a proseguire gli studi insieme ad un mio amico figlio di operai che andò invece in seminario. Durante la prima media l’insegnante di italiano preso atto dello stato pietoso del mio scrivere, si affezionò e si mise in testa di insegnarmi a scrivere in italiano. Cosa fece? Una cosa molto semplice, mi invitò anzi…. a scrivere ogni santo giorno un diario della giornata che lei regolarmente correggeva una volta al mese. All’inizio erano solo strafalcioni poi con il passare del tempo si dimostrò che lei aveva ragione. Conservo ancora oggi gelosamente alcuni di quei librettini con la copertina nera. La mia scuola media si trovava a Cesena in Piazza Fabbri dove ora c’è la nuova biblioteca Malatestiana.
Se qualcuno di voi inizia a fare ‘’e zapal’’ e gli scende una lacrima, è pregato di asciugarla in fretta perché questa non è una storia triste ma a lieto fine. Gli attori sono diversi: i genitori del bambino, il prete della parrocchia, il funzionario del partito comunista, la maestra della scuola elementare, l’omino dell’anagrafe. Dire che il bambino è l’interprete principale è inesatto, diciamo che è il soggetto attorno al quale l’autore ha ricostruito il modo di pensare di quel tempo, le usanze, le tradizioni, le convinzioni ed i sintomi evidenti di una società contadina che stava cambiando. A proposito, lo sapete cosa significa ‘’fare e zapal?’’. Si dice di una persona che incrina il labbro superiore (zapal) a forma di beccuccio ed è sul punto di commuoversi o di piangere. Scusate la digressione. Comunque quel bambino ero io. Dunque, siamo nei primi anni del 1960 ed era una splendida giornata estiva. Verso sera nella bella aia della nostra casa contadina si ritrovarono casualmente alcuni personaggi. Discutevano amabilmente sotto l’ombra di una quercia davanti ad un fiasco di sangiovese. Erano seduti alla meglio su sedie traballanti. C’era il prete Don Antonio imponente ed austero, di solito a quell’ora faceva il suo giretto per il paese con il sigaro in bocca, faceva volentieri sosta a casa nostra ed era grande amico di mio babbo. C’era un funzionario del partito comunista, Suzzi, che doveva tenere un comizio in paese la domenica successiva e che da bravo politico era venuto a trovare mio babbo per conoscere i fatti accaduti nell’ultimo mese e poter fare quindi bella figura. Era un uomo molto simpatico, faccia larga, denti radi e sempre sorridente. C’era la maestra della scuola elementare Guiducci, gran bella donna con due splendide gambe, che ogni tanto ci veniva a trovare per acquistare o meglio farsi regalare una dozzina d’uova. C’era poi il così detto ‘’omino dell’anagrafe’’. Era molto conosciuto a Cesena. Stazionava tutte le mattine vicino all’ufficio anagrafe del comune di Cesena (in fondo alla scalinata che porta alla Rocca Malatestiana). Tutti lo sconoscevano, era seduto dietro un tavolinetto ed aveva perennemente il bocchino della sigaretta in bocca. Era simpatico e faceva da consulente a coloro che si recavano in comune per espletare qualsiasi pratica, in modo particolare ai contadini che provenivano dalle campagne. Utilizzava una penna stilografica ed aveva una pila di fogli bianchi, vendeva pure le marche da bollo. Dai contadini si faceva pagare in natura. Lo vedevi arrivare nel pomeriggio e ripartiva con una dozzina di uova, una mezza gallina, un quarto di coniglio. Quando in campagna annusava un affare nel quale lui poteva avere una qualche parte, era prontissimo a dare il suo contributo. C’era ‘’Luis ad Branchetti’’, quello che potremmo definire ‘’ lo scemo del paese’’. Era un bravo ragazzo di circa 30 anni ma ragionava come un bambino di sei anni. Tutti lo coccolavano. Quando vedeva un gruppo di persone lui si intrufolava sempre, ascoltava, rideva ma non dava alcun fastidio. C‘era mia mamma che era appena tornata dal campo con un fascio d’erba sulle spalle per i conigli. C’era mio babbo grande intrattenitore, di fede comunista ma stimato da tutti in paese perché considerato un uomo giusto e sopra le parti. Veniva spesso chiamato per comporre liti o per aggiustare situazioni prima che sfociassero in denunce. C’ero infine io che di solito giocavo nei dintorni ma quella volta ero attento perché era presente la mia maestra e soprattutto perché ero l’oggetto della discussione. Quando si riuniva quel gruppo a casa mia, magari con componenti di volta in volta anche diversi, gli argomenti della discussione erano vari. A volte si parlava di politica ed allora il prete, gran democristiano, sosteneva che nell’Unione Sovietica la gente moriva di fame ed i preti venivano incarcerati. Interveniva Suzzi dicendo che la rivoluzione socialista aveva portato al potere il popolo e che la proprietà privata era stata eliminata. La discussione diventava molto vivace ed allora interveniva mio babbo che pur essendo di parte diceva ‘’enca in Rossia in liga i chen cun la zunzeza’’ (neppure in Russia legano i cani con la salsiccia). Tutto finiva con una bicchierata. A volte mia mamma andava a fare velocemente due piadine, mio babbo affettava un salame e la discussione filava via che era un piacere. Comunque quel giorno il quesito era questo: io avevo appena terminato la scuola elementare, dovevo continuare gli studi oppure no? Siamo all’inizio degli anni 60 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato prevalentemente da famiglie di contadini mezzadri. La mia era una di quelle ed io ero un bambino al quale sono rimasti impressi molti ricordi. Dovete sapere che sino alla fine degli anni 50 i figli dei contadini, dopo avere terminato la quinta elementare, non proseguivano gli studi tranne casi eccezionali. Le motivazioni erano diverse. Chi avrebbe garantito il lavoro nei campi e quindi il sostentamento della famiglia? I padroni dei poderi non accettavano un contadino che avesse intenzione di mandare i figli a scuola perché non vedevano garantita la forza necessaria per lavorare i campi. Molti erano fatalisti nel senso: è sempre stato così e così deve essere, i figli dei medici dovevano fare i medici, quelli dei notai i notai e così via. Il discorso riguardava soprattutto i figli maschi perché le figlie si sarebbero sposate e sarebbero comunque uscite di casa, ma neppure a loro era concesso di proseguire gli studi. Dovevano invece imparare a fare bene i lavori di casa ed al massimo ad imparare un mestiere come sarta, magliaia, parrucchiera. C’era poi la difficoltà di raggiungere la città dove si trovava la scuola media. All’inizio degli anni 60 iniziò una lenta inversione di rotta. I Governi avevano introdotto l’obbligatorietà di frequentare la scuola media che comunque pochissimi osservavano. Il Comune di Cesena aveva introdotto il trasporto gratuito dalla campagna alla città. I funzionari comunisti e quelli della Camera del Lavoro giravano per le campagne e spiegavano ai contadini l’importanza di mandare i figli a scuola almeno fino alla terza media. Per farla corta quel giorno tutti conclusero che era bene che io frequentassi la scuola media. Il più agguerrito era mia babbo che sosteneva che anche i figli dei poveri dovevano poter progettare i ponti, fare interventi chirurgici, insegnare a scuola ed anche l’Italia ne avrebbe tratto vantaggio. Il dado era tratto. L’omino dell’anagrafe colse la palla al balzo e la settimana successiva si presentò a casa nostra con due grandi libri che naturalmente mio babbo gli pagò con una cassetta di pesche. Disse che per potere continuare gli studi era bene che io cominciassi a leggere dei libri per allenarmi e lui sarebbe venuto alla fine dell’estate a chiedermi il riassunto. Fu per me un sacrificio enorme e vi confesso che nella mia vita ho letto in seguito molti libri ma ce ne sono due molto famosi che conservo, che odio e che non leggerò mai più: La capanna dello zio Tom e L’ultimo dei mohicani. Erano appunto i due che mi aveva dato l’omino dell’anagrafe. La scuola iniziava ad ottobre, vi erano tre possibilità, iscrivermi alla scuola media tradizionale oppure all’avviamento industriale oppure alla scuola nuova media unificata (che poi è diventata l’unica ed attuale scuola media). Mi iscrissi all’avviamento industriale perché per scaramanzia se non fossi stato bravo avrei imparato anche un’attività manuale. Acquistai tutti i libri dalla libreria Bisacchi e li firmai tutti nella prima pagina. Il primo giorno di scuola scoprimmo che c’erano due rientri settimanali e non c’era la corriera al pomeriggio. Subito dietrofront e mi iscrissi alla scuola media unificata. Non vi dico la faccia della signora Bisacchi della cartolibreria quando le chiedemmo di cambiare tutti i libri. Alla fine accettò ma l’operazione costò a mio babbo molta frutta in regalo per tre anni. Quindi a San Tommaso fui il primo ed unico bambino di famiglia contadina a proseguire gli studi insieme ad un mio amico figlio di operai che andò invece in seminario. Durante la prima media l’insegnante di italiano preso atto dello stato pietoso del mio scrivere, si affezionò e si mise in testa di insegnarmi a scrivere in italiano. Cosa fece? Una cosa molto semplice, mi invitò anzi…. a scrivere ogni santo giorno un diario della giornata che lei regolarmente correggeva una volta al mese. All’inizio erano solo strafalcioni poi con il passare del tempo si dimostrò che lei aveva ragione. Conservo ancora oggi gelosamente alcuni di quei librettini con la copertina nera. La mia scuola media si trovava a Cesena in Piazza Fabbri dove ora c’è la nuova biblioteca Malatestiana.
Stephanie, questo è il mio articolo: https://thecandelabraofitaly.blogspot.it/2017/02/una-riflessione-sullitalianita.html.
RispondiEliminaBuona lettura.