giovedì 23 febbraio 2017

IL MIMO


Un’altra figura caratteristica delle rappresentazioni popolari è quella del mimo che, nella versione attuale, si esibisce in rappresentazioni mute servendosi solamente della gestualità. Tradizionalmente l’origine dell’arte mimica è confusa con la pantomima, una farsa popolaresca diffusa in Sicilia nel V sec. a.C. che presso gli antichi Romani divenne una rappresentazione buffonesca nella quale, eccezionalmente, potevano recitare anche le donne, altrimenti escluse dal palcoscenico. Le attuali “statue viventi” che si incontrano per strada in molte città, non possono essere considerate mimi a causa dell’immobilità della loro esibizione e dell’assenza di azioni a fine narrativo.

MIMO. - La voce mimo, mentre genericamente indica l'imitazione (μιμεῖσϑαι, "imitare"), vuol designare in modo specifico quelle forme comiche minori che, nella letteratura d'ogni paese, meno facilmente possono classificarsi e differenziarsi. Esse vivono come forme inferiori delle comico-drammatiche maggiori e lasciano poche tracce di sé nella storia e nelle lettere. In particolare, le forme mimiche greco-latine sono quasi interamente sparite.

Mimo greco. - Dai Greci si disse mimo sia l'attore, uomo o donna, che produce l'imitazione, sia un particolare genere affine alla commedia. Gli antichi non ci videro che una rappresentazione realistica della vita, con tendenza a deformarla buffonescamente. Ma questo è sufficiente a distinguer mimo da commedia?

Al più basso gradino degli attori-mimi si possono porre coloro che imitavano le voci degli animali, il fragore dei torrenti e del mare, lo scoppio del tuono, i prestigiatori e i funamboli. Tanto più facilmente il mimo diviene danzatore (ὀρχηστής), in quanto i Greci non separavano, come spesso i moderni, danza da mimica. C'è una danza-imitazione individuale, e una danza-imitazione in massa.

Con la danza s'imitavano animali, personaggi tipici, scene piacevoli. Ateneo ricorda la danza del Ciclope e d'Odisseo e le farse di semplicità tutta spartana dette δεικηλίκται: in una si rappresentava il medico straniero che dà i suoi consulti in linguaggio e con accento barbaro. I fallofori di Sicione coprivano il volto con serpillo e foglie d'acanto, portavano una corona d'edera e di violette, vestivano una specie di pelliccia. Avanzando con passo ritmato essi intonavano un canto licenzioso, quindi, sciolte le file, si motteggiavano l'un l'altro.

Già nell'Anabasi (VI, 1) Senofonte ci descrive interessanti danze mimiche e pantomimiche. Ma tipica fra tutte è la scena degli amori di Bacco e Arianna che chiude il Banchetto dello stesso Senofonte: Arianna entra nel talamo coniugale seguita da Bacco un po' avvinazzato, riappare poi sulla scena ornata come sposa e siede su un trono. Si suona sulla tibia il ritmo bacchico. Riappare Bacco danzando, siede sulle ginocchia di lei, la bacia. Essa fa la vergognosa, ma arde d'amore. Al genere mimico appartengono senza dubbio anche i phlýakes della Magna Grecia, rivelatici dai disegni di molti vasi. In scene di difficile interpretazione, ma di spiccata intonazione comica, appaiono uomini mascherati, dall'espressione grottesca o bestiale ma vivacissima, ventruti e con il phallós dionisiaco. Gli argomenti dovevano essere svariatissimi, mitologici e della vita comune: avventure di dei e d'eroi, scene di crapula. Vi si danzava, gli attori stavano su un palco, che forse non era sempre d'un teatro, ma di baracche improvvisate.

Il mimo si sviluppa anche come genere più affine alla commedia. Si enuclea intorno a un argomento, accenna a un intreccio. Anch'esso ha probabilmente origine religiosa, da quelle stesse feste dionisiache da cui nacquero commedia e tragedia, ma volge ben presto al profano. Possiamo dividere questi mimi in prosastici e lirici. Ebbe gran fama e viene ricordato da molti autori Sofrone di Siracusa, vissuto nel secolo V a. C., che scrisse, a quel che pare, in prosa ritmata. Dovevano essere quadri di costume, scene brevi dove apparivano dei e soprattutto gente del popolo esprimentisi in un grossolano e pittoresco linguaggio popolare. Poco più d'un nome è per noi il figlio di Sofrone, Senarco. Gli scavi egiziani ci hanno restituito nel 1891 otto mimiambi di Eroda, vissuto probabilmente nel sec. III a. C. Sono scene realistiche di piccola vita, donde balza un dialogo popolaresco non privo di sapore. Eroda ci ricorda il contemporaneo Teocrito, in quelli dei suoi idillî che hanno più spiccato carattere borghese (ad es., Le Siracusane).

Tale il mimo realistico. Esisté però anche un mimo lirico. I mimi lirici cantando imitavano i citaredi e i cantori di ditirambi. L'ilarodia aveva carattere prevalentemente serio e sentimentale. Sarebbe ilarodia il celebre Frammento erotico alessandrino pubblicato da M. B. Grenfell, lamento d'un'amante abbandonata. Non monologo puramente lirico, esso importa un po' d'azione, perché l'amante supplica l'infedele davanti alla sua porta. La magodia era comica, come forse quel Lamento per la morte d'un gallo da combattimento dei papiri d'Ossirinco. Da questo proviene anche l'Adultera(Μοιχεύτρια), esplicitamente chiamata mimo nei manoscritti. Personaggio quasi unico n'è una donna maritata, la quale ama un suo schiavo. Respinta da lui, ordisce un'orribile vendetta. Th. Reinach non dubitò d'assegnare al mimo lirico anche un frammento d'ostrakon detto Κωμάζων: è il dialogo tra un ubriaco preso da impeto erotico e un amico che tenta di trattenerlo.

Mimo romano. - Esistettero in Roma, miste alle altre forme comiche, forme mimiche popolaresche - originarie o fin da antico importate - di ciarlatani, funamboli, prestigiatori, danzatori. Per uno spettacolo di tal genere il popolo abbandonò la rappresentazione dell'Hecyra di Terenzio. Ma il mimo, genere greco determinato, venne in Roma dall'Oriente, poco prima che finisse la seconda guerra punica, insieme con il culto della Magna Mater o Cibele in quelle feste Megalesie, che, con le Apollinari e con le Florali, conservarono lungamente carattere mimico. Per quanto le fonti siano incerte, dovette intercorrere un legame tra il culto della Magna Mater e d'Apollo e gli spettacoli mimici. Il nome di parasiti Apollinis, probabilmente non designò solo una corporazione d'attori, ma degli attori sacerdoti.

Decadeva l'atellana, venne in voga il mimo. Fino dai tempi di Silla abbiamo notizia di planipedes, chiamati così, secondo alcuni, perché lavoravano nell'orchestra, allo stesso piano delle ultime file di spettatori, secondo altri e più verosimilmente, perché non portavano calzari. Forse allora il mimo costituiva un intermezzo alle varie parti degli spettacoli (exodium). Erana piccole scene comiche o fantastiche: gli eccessi d'un povero divenuto ricco; un uomo, caduto in letargia, svegliandosi, prende a pugni il medico che lo cura. Ovidio (Trist., II, 497) delinea una scena nella quale, ogni volta che la donna e l'amante s'intendono per beffare lo sciocco marito con astuzia diversa, scoppiano gli applausi. Cicerone motteggiando l'amico Trebazio che forse seguirebbe Cesare in Britannia, gli fa temere d'essere messo in un mimo da Laberio: "sarebbe un buon personaggio di mimo, un giureconsulto tra i Britanni". È uno spettacolo grossolano, condito di parole scurrili, incongruente e bizzarro. Cicerone (Pro Caelio, z7), di un'accusa poco solida e mal condotta dice: "Non è il principio d'una commedia, ma d'un mimo: nel quale, quando non si trova un finale, uno scappa dalle mani che lo tengono, le nacchere strepitano, si leva [cioè per noi, si abbassa] il sipario". Lo stupidus con i capelli rasi riceveva schiaffi e rispondeva sciocchezze. Quando, al tempo del poeta Marziale, l'archimimo Latino colpiva il povero Panniculus con colpi che risuonavano per tutto il teatro, si levava un gran riso, il mimicus risus. Talora il mimo era anche osceno: una volta, nelle Florali, Catone uscì di teatro, per lasciar libero il popolo di chiedere che le attrici si denudassero. Eliogabalo volle il massimo realismo nelle scene d'adulterio. Fu per lungo tempo il solo spettacolo in cui avessero parte le donne. La mima Arbuscula ebbe gran fama ai tempi di Cicerone; ancor più famosa Citeride, amante di Marco Antonio.

Ma anche il mimo ebbe sua dignità letteraria ai tempi di Cesare: da Decimo Laberio e da Publilio Siro (v. laberio; publilio siro). Il primo, cavaliere romano, fu costretto a recitar un suo lavoro, dal dittatore che non gli perdonava mordacità politiche. Abbiamo il prologo, pieno d'accorata tristezza, che il vecchio poeta recitò in quell'occasione. Ma troppo frammentario è quel che ci resta di Laberio e di Publilio, perché possiamo formarci un concetto preciso dell'opera loro.

Durante l'impero il mimo, nonché perder favore, trionfò su tutti gli altri generi comico-drammatici. Fu famoso per lungo ordine di anni il Laureolus di Catullo. È Laureolus un capo di ladri che sfugge lungamente alla giustizia, salta persino dalla croce, al momento in cui ve l'appendono, ma infine gli spettatori hanno la gioia suprema di vederlo giustiziato in scena. Rappresentato verso la fine del regno di Caligola, al tempo di Domiziano il supplizio non fu più finzione: uno schiavo fu veramente suppliziato sulla scena. Era ancora applaudito al tempo di Tertulliano.

Il mimo partecipò con passione alla lotta contro i cristiani. Ne abbiamo un'idea dalla Passione di S. Genesio mimo e martire (Acta Sanct., 25 agosto, V, p. 122), la quale racconta che, quando Genesio fu toccato improvvisamente dalla grazia, egli rappresentava in un mimo un malato grave che dal letto domanda d'essere battezzato.

Teoria dell'evoluzione mimica. - Per molto tempo, quanti cercano nei generi letterarî affini un'origine unica e un'evoluzione affermarono che dal Peloponneso, terra classica delle forme comico-drammatiche, i mimi devono essere passati, con intermediaria Megara, nell'Attica, in Sicilia, nella Magna Grecia, nella stessa Roma. Non si presunse però di trovare le prove o almeno i fili di tali complicati passaggi. Una trentina d'anni fa H. Reich in un'ampia opera (Der Mimus, 1903) delineò, con frondosità di particolari, una teoria completa dell'evoluzione mimica fino ai tempi moderni: teoria che, per quanto accolta con riserve anche dai più favorevoli, suscitò vivissimo interesse tra gli studiosi. In breve, il Reich dice che, durante il sec. IX e l'VIII a. C., sorse in tutto il mondo greco un piccolo dramma burlesco in prosa, fedele riproduzione della vita reale, il quale in Sicilia prese il nome di mimo. Oltre al mimo in prosa (o mimologia) essenzialmente dorico, v'era il mimo in versi (o mimodia) nato nella Ionia. Platone amava i mimi di Sofrone: ma questo nome di mimo acquistò forza dalle teorie dei Peripatetici e finì per prevalere su qualunque nome locale. Durante l'età alessandrina, mimologia e mimodia si fusero nell'ipotesi mimica, dramma complesso di canto e di prosa, che sarà portato a Roma insieme eon le forme più semplici originarie e finirà per seppellire commedia e tragedia. Durante il Medioevo, il mimo visse nel Karağöz o Pulcinella turco, e persino negl'istrioni indiani. Caduta Costantinopoli, i mimi bizantini arrivano a Venezia e ne nasce la commedia dell'arte. Di qui il passo a Shakespeare e al dramma romantico è breve.

Appare facile obiettare: per costruire la sua teoria, il Reich deve rendere così lato il concetto di mimo, che ogni genere comico-drammatico può rientrarvi; tutto quanto riguarda l'ipotesi mimica non ha quasi né prove né indizî, se non forse nel frammento χαρίτιον dei papiri d'Ossirinco, dove appare una ragazza, Charition, che si trova in un paese barbaro prigioniera d'un re, e tenta la fuga aiutata dal fratello e da un tipo di buffone; ancor meno dimostrato è il collegamento tra mimo classico e forme comiche moderne.

Piuttosto ci domanderemo: il mimo classico ebbe caratteri sostanzialmente diversi dalle altre forme comiche, e in ispecie dalla commedia? Crediamo di sì. Dall'esame comparativo di tutto quanto può dirsi con certezza mimo, appare ch'esso fu un breve componimento destinato alla scena, ma che non può dirsi drammatico perché non ha, almeno originariamente, un vero intreccio. Vi si rappresentano tipi e passioni in un determinato momento, non nel loro svolgimento integrale. Nel mimo non compare che l'individuo considerato in sé o anche, benché più raramente, una massa d'individui che ne forma, per così dire, uno solo, annullandosi la personalità di ciascuno nell'identità degli atti di tutti. Ecco perché, ad esaminare la superficie, il mimo può apparire più realistico delle altre forme comiche.

Altri caratteri vi si aggiungono: prosastico o poetico, recitato o musicato. Dalla lampada di argilla illustrata dal Watzinger apparirebbe confermato quanto sappiamo da altre fonti: che i mimi non portassero maschera. Come s'è detto sopra, nel mimo romano comparivano in scena anche le donne. Ma sono caratteri accessorî ed estrinseci, non tali di per sé stessi da determinare un genere, neppure se si uniscano a quel carattere mimico o realistico, che di fatto appartiene a forme letterarie diversissime tra loro.

Ediz.: Comicorum graecorum fragmenta, ed. G. Kaibel, I, fasc. 1, Berlino 1889; A. Olivieri, I frammenti del mimo siciliano(esame critico, traduzioni e commentario di tutti i frammenti attribuiti a Sofrone e a Senarco), Napoli 1928. Per i frammenti dei Papiri d'Ossirinco e altri simili si possono vedere, Herondae mimiambi. Novis fragmentis a diectis edidit O. Crusius, 5ª ed., Lipsia 1914, p. 99 segg., dove essi sono raccolti. Per i frammenti più recenti: K. Fürst, Les fragments des mimes grecs récemment découverts, in Listy filologické, 1923, pp. 84-94; 191-204. M. Norsa e G. Vitelli, Da un mimo di Sophron, in Studi ital. di filol. class., n. s., X (1933), p. 119 segg.

Bibl.: H. Reich, Der Mimus, Berlino 1903; F. Bernini, Studi sul mimo, in Annali R. Scuola normale superiore di Pisa, XXVII (1915); U. Janell, Lob des Schauspielers oder Mime und Mimus, Berlino 1922; G. Dalmeyda, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, III, ii, pp. 1899-1903; G. Boissier, ibid., III, ii, pp. 1903-1907.

Il carattere decisamente realistico e plebeo che il mimo assunse nella sua evoluzione nel mondo classico, quale sopra è stata delineata, spiega come gli attori che lo rappresentavano (detti anche essi, come in principio si è accennato, mimi) venissero considerati ai più bassi gradi della scala sociale. Quando Cesare ordinò a Laberio di comparire sulla scena a rappresentare il suo mimo, ciò equivalse a una degradazione del cavaliere, cui solo in parte riparò il dittatore restituendogli l'anello d'oro, simbolo della dignità equestre. Il ratto di una mimula sembrava allo stesso Cicerone un trascorso appena degno di biasimo, quasi un diritto nelle cittadine provinciali... Nei greges (compagnie) reclutati e diretti dall'archimimus o dall'archimima (ricordiamo che nel mimo anche le donne erano ammesse sulla scena) dovevano raccogliersi quegli strati di infima umanità, tra artisti, e persone di vita equivoca, la cui rievocazione, nello sforzo appassionato d'una ricostruzione totale della civiltà antica, tentava così spesso la fantasia del Flaubert.

Mimo nell'età medievale. - Nel decadimento di tutte le forme letterarie verificatosi nell'alto Medioevo, ne venne a soffrire in particolar modo il teatro e con esso i suoi attori. Mentre il mimo come genere letterario scomparve, il mimo - improvvisatore, girovago, giocoliere - sopravvisse all'antichità, portando e conservando nei varî paesi europei una rudimentale forma di spettacolo pubblico. Non si hanno notizie dirette sull'esistenza e l'opera dei mimi, ma sono ricordati nelle ordinanze pontificie e imperiali come elemento pernicioso per la vita morale: a partire dal sec. IX il mimo è confuso con i giullari, i suoi grandi successori.

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