Dal web “rustici che passione”
Trattare le povere case mezze distrutte, sparse per i monti, da tanto tempo non utilizzate, come un “bene culturale” è una conquista.
Una conquista recente poiché fino a pochi anni fa, per “bene culturale”, per bene da conservare e proteggere, da restaurare, si è inteso solamente il “monumento” come la Chiesa, il palazzo del nobile e il castello, cioè le cose vistose, che apparivano di lusso.
Si sono, in tal modo, conservate chiese e grandi palazzi attribuendo un certo valore a tali lavori ma sono state, quasi sempre, escluse le case comuni con poche eccezioni. Così oggi abbiamo ancora un magnifico centro storico a Castell’Arquato e a Vigoleno ma potremmo averne esempi deliziosi anche a Fiorenzuola d’Arda, a Cortemaggiore, a Vernasca ecc…
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Potremmo avere anche meravigliosi borghi antichi, con case di pietra, come lo furono tanti paesini di montagna della valle dell’Arda e dintorni.
Qui si conservano solamente ancora rari esempi di ottime ristrutturazioni. Abbiamo ancora alcuni piccoli borghi rurali gioiello come possono essere considerati Vezzolacca, Rocchetta, Rusteghini, Castelletto, Taverne e pochi altri.
Ora, per fortuna, riteniamo cultura quello che la gente ha fatto con le proprie mani, tramandando un patrimonio di esperienze di padre in figlio, come prodotti necessari alla quotidianità, indispensabili per vivere, per lavorare e per il futuro.
Lo consideriamo patrimonio culturale fatto di “fatica”, di modi e tecniche affinate per millenni coltivando, osservando la natura, allevando bestiame, utilizzando il bosco e le pietre per costruirsi la casa.
Proprio la casa è il frutto di adattamenti secolari, modifiche dettate da nuove esigenze sociali, alla ricerca di un risultato sempre migliore.
Continuamente, utilizzando e riutilizzando le pietre precedenti, le travi secolari, con quella cautela e saggezza che è tipica del contadino, con il minimo si è spesso ottenuto il massimo.
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Questo compito non può essere lasciato a una Soprintendenza dei Monumenti.
C’è stato un tempo troppo lungo, forse è ancora così, dove il concetto di conservazione era limitato, per quanto riguarda le case comuni, i borghi rurali, alla finestra, al portale, al raro fregio architettonico ma non alla casa medesima, nella sua globalità.
Considerazioni più sociali non erano “di moda” e quindi si è permesso di abbattere e snaturare ovunque. Al posto delle case in sasso sono sorte le orrende villette, stile periferia di città e buona notte.
Non si è voluto capire, la differenza, non si è comprendere che mentre il monumento (ma meno male che si siano salvati almeno questi!) è spesso il risultato di una sola o di poche azioni edili, le case comuni e i borghi rurali, nel loro complesso, sono frutto di approssimazioni successive, anche molto diverse e durate per secoli.
In questi agglomerati rurali vi hanno “faticato” generazioni adattando le loro case alle necessità della famiglia, del lavoro, della condizione economica. Spesso il risultato erano(sono) opere di vera architettura “popolare” collettiva.
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Ora non possiamo trattare queste case e luoghi rurali come scatole consumate, poiché il loro valore non è solo misurabile in denaro. Contano anche la storia e il valore sociale che una certa costruzione aveva assunto. Per questo occorre imparare a leggere e rifuggire dalla facile tentazione di “ruspare via” un vecchio edificio quando è recuperabilissimo.
A un certo punto ci avevano convinti che i nostri vecchi mobili di legno, che erano sempre di produzione locale e di ottima qualità, non avevano alcun valore e non erano di moda e li abbiamo scambiati con quelli di formica.
Ora andiamo a ricomprarli nei mercatini a caro prezzo. La televisione e certi giornali aprendoci (giustamente) al mondo ci hanno anche indotto in tentazione giudicando possibile trasferire un modello di casa fatto a Rouen anche sui nostri appennini. Copiando abbiamo forse pensato di essere più moderni ma invece…
Le nostre case rurali, come si diceva, in molti casi erano frutto di “architettura” popolare, più coerente e umana di quella “importata “ da fuori zona.
La nostra era un’architettura dettata da vera necessità ed era l’unica cosa “povera” che avremmo dovuto salvaguardare perché se oggi stiamo meglio lo si deve a questi poveri contadini, braccianti, muratori, con pochi soldi ma con un cuore grande così.
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Molti di questi non hanno esitato sul finire dell’ottocento a recarsi alla “fine del mondo” come dice il nostro caro Papa Francesco.
Certamente, parlando del grande patrimonio di case in pietra, non vogliamo fare discorsi assoluti! Stiamo parlando del recuperabile… che è ancora tanto.
Un muro, un solaio, un tetto, una porta, una finestra, una facciata, tanti sassi…tanta storia, tanta cultura, tante radici umane.
Certo il mestiere del recuperatore è manuale, difficile, faticoso, richiede fatica e pazienza e di giovani che intraprendano quest’attività non ve ne sono più. Per questo serve fare in fretta. Per questo occorre pensare alla scuola necessaria per chi volesse fare questo.
Se non ci arriveremo in tempo non ci resterà che ruspare via tutto, fare nuove fondazioni di cemento armato e costruire villette omologate da Siracusa al Pelizzone.
Chi può ancora lo faccia …recuperi, ristabilisca un rapporto con il tempo e la memoria.
Lascerà un patrimonio inestimabile ai suoi figli e nipoti e… alla sua comunità.
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