Ero a un soffio dalla conquista di un gigante himalayano. Sarebbe stata la mia dodicesima vetta conquistata delle 14 montagne che superano gli ottomila metri. Lì fui investita all’improvviso da un vortice di dolore: la malattia di mio marito Romano fu un fulmine a ciel sereno. Decisi immediatamente di rinunciare e scendere. Cominciava la nostra odissea nel dolore. In questa traversata, tra dubbi,angosce, un’altalena di speranze e disperazioni, mi sono sentita spesso fragile, disorientata e smarrita, confusa tra mille domande e con fiammelle di risposte che mi sembravano flebili, sempre più tenui. Ho pensato più volte di non farcela, ho sofferto la solitudine del dubbio, dell’andare avanti senza sapere quale sarebbe stata la meta. Lui, Romano, affrontava i giorni con saldezza, senza aggrapparsi a troppe aspettative. Siamo usciti finalmente dal tunnel e abbiamo rivisto la bellezza della luce, riscoperto insieme la meraviglia della vita. È un po’ come quando si è in tenda, su, in alta quota e fuori c’è bufera: bisogna star lì e aspettare che torni il sereno. Ora guardo a queste orme, le rivedo con un animo diverso e nuovo. Allora mi sembrava di barcollare, svuotata di energie e coraggio, quasi esausta. La prova, che in quella temperie mi pareva insuperabile, rivisitata, appare con il suo valore, con la sua potenza di rivalutazione di ciò che abbiamo. Con lo stupore per ogni nuovo giorno, per ogni emozione, che ci rilancia la fiducia in noi stessi e negli altri, di cui comprendiamo la calda vicinanza dell’accompagnamento silenzioso e discreto. Ci tenevano in braccio, lievemente, quasi non volendo disturbare. Ma erano lì a sostenerci, condividendo la speranza: e aiutandoci, in definitiva, a migliorarci come persone.
Nives Meroi, alpinista e scrittrice
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