Erano le tre di notte di un giorno di fine ottobre ed in quella casa ‘’si dormiva alla grande’’. Verso le due, nonno Armandin (piccolo Armando) si svegliò e disse alla moglie ‘’zend la lusa che ho da fè un goz d’acqua’’ (accendi la luce che devo fare la pipì). La vecchietta che si chiamava Adele era piccola e magra e dormiva rannicchiata in un angolo del grande letto, sembrava che non ci fosse. Per la verità era rannicchiata anche di giorno perché il lavoro duro dei campi le aveva praticamente piegato il corpo in due e per camminare si appoggiava ad un bastone. Non è come potreste pensare che lei prendeva ordini dal marito. Il problema era molto semplice, lui aveva quasi 90 anni ed era quasi cieco. All’epoca non si operava la cataratta. Inoltre era molto sordo a causa dell’età. La moglie che ci vedeva e sentiva benissimo nonostante i suoi 85 anni si svegliò e con le mani cercò la ‘’pireta’’, interruttore della luce che penzolava sopra la grande spalliera del letto e che tagliava in due il bel quadro della Madonna appeso. A volte faceva cadere il ramoscello d’ulivo che veniva fissato in un angolo del quadro e che veniva cambiato una volta all’anno in occasione della domenica delle palme. Dunque Adele afferrò la pireta e premette il pulsante. Niente, la luce non si accese. La lampadina sotto il piatto smaltato e screpolato appesa nel centro della stanza non diede segno di vita. Per la verità anche quando si accendeva, emanava una luce fioca e debole che comunque permetteva di muoversi nella stanza. Che si fosse fulminata? Non sarebbe stato un guaio perché ogni tanto capitava ed occorrevano alcuni giorni per la sostituzione. Doveva infatti arrivare il sabato quando il figlio grande Danilo sarebbe andato in piazza (al mercato) a Cesena e l’avrebbe comprata da ‘’Brasena’’ che era un negozio che vendeva un po’ di tutto ai contadini che venivano dalla campagna. Adele non si perse d’animo, si sedette sul letto, trovò a tentoni il mozzicone di candela che teneva sempre sopra il comodino e l’accese con una ‘’suifanel’’che erano i lunghi fiammiferi da cucina. La fiamma prese corpo ed illuminò lievemente l’interno della stanza. Tutti gli oggetti presero forma e sembrava che si muovessero, in realtà era la loro ombra che ondeggiava. Dalla specchiera sopra il comò le fotografie dei defunti erano indecifrabili se non quella grande della povera bisnonna che ti guardava con espressione austera. Il rumore dei tarli si interruppe. Nelle due grandi mensole appese al muro facevano bella mostra i formaggi ed il loro odore acre era parte integrante dell’ambiente. Allora il vecchietto aiutato dalla moglie he aveva circumnavigato il lettone, scese dal letto, tolse ‘’e bucalet’’ (vaso da notte) da sotto il letto ed espletò la sua funzione. Ormai da qualche anno doveva alzarsi tre o quattro volte ogni notte. La moglie l’aveva fatto presente al Dottor Celletti che era il medico della mutua e che ogni tanto passava in campagna a controllare i pazienti anziani. Dopo avere fatto alcune domande al vecchietto, il medico aveva concluso che non era grave e che data l’età non era il caso di fare altri accertamenti. Dopo il trambusto i due vecchietti decisero di rimettersi a dormire non prima di essersi accorti di avere un gran freddo. Prima non l’avvertivano imbacuccati com’erano sotto le coperte. Un’enorme camicia di fustagno lei con gli ‘’scalfarotti’’ di lana ai piedi, maglia di lana e mutande lunghe di lana lui. Sopra una bella imbottita di lana. Era molto robusta e morbida perché era stata rifatta due mesi prima. Voi saprete che ogni due o tre anni l’imbottita di lana veniva scucita e la lana ‘’sgramigliata ‘’ perché nel tempo tendeva a comprimersi e ad ammucchiarsi. Quell’anno l’Adele aveva disfatto alcune maglie di lana vecchie ed aveva rimpinguato quella dell’imbottita. Erano andati a letto presto, verso le otto di sera dopo una tazza di latte caldo. A quell’ora spirava ‘’la curena’’ un vento caldo che nulla prometteva. Infatti nel giro di poche ore arrivò una burrasca con un fortissimo vento e la temperatura si era improvvisamente abbassata. Loro non se ne erano accorti perché dormivano. Era stato proprio quel vento che aveva sicuramente abbattuto un palo della luce e quindi la corrente sarebbe mancata in varie case per qualche giorno fino a che gli operai non avessero individuato ed accomodato il guasto. Siamo alla fine degli anni 50 e ci troviamo a San Tommaso bel paesino sulle colline romagnole di Cesena ed abitato da famiglie di contadini mezzadri. La mia era una di queste ed io ero un bambinetto al quale certe immagini o racconti sono rimasti impressi. San Tommaso era uno dei pochi paesi di collina che a quei tempi aveva la luce elettrica. L’acqua potabile no ma la luce si. Comunque l’energia elettrica veniva chiamata ‘’la lusa’’ (la luce). Si diceva ‘’smorta la lusa’’ (spegni la luce), ‘’zend la lusa’’ (accendi la luce), ‘’l’è avnù menc la lusa’’ (è venuta a meno la luce). I fili che dal contatore arrivavano agli interruttori ed alle lampadine erano intrecciati e ricoperti da un avvolgimento grosso di stoffa. Viaggiavano sopra i muri. Gli interruttori erano ‘’a scrocco’’ tranne quello sopra il letto che era la famosa ‘’pireta’’. Le lampadine con la potenza in ‘’candele’’ erano appese ai lampadari che erano dei piatti di latta oppure smaltati. Il consumo era modesto perché, non ci crederete, nessuno aveva il frigorifero, la lavatrice, il tostapane ed altri elettrodomestici. L’unica utilizzo era l’illuminazione: una lampada in cucina, una in camera da letto, in cantina, sotto il portico, in un muro esterno. A volte i topolini rosicchiavano i fili e si creavano dei cortocircuiti. Durante l’inverno con la neve o con le forti burrasche alcuni pali della luce cadevano a terra e si rimaneva senza anche per giorni. Per questo motivo si teneva una scorta di candele da usare alla bisogna. Per la verità iniziavano a fare la prima comparsa la radio e la televisione rigorosamente in bianco e nero. La televisione si trovava soprattutto nel circolo dei comunisti ed in quello della parrocchia. A Saiano c’era anche il frigorifero per i gelati dove la mamma del prete vendeva il gelato sfuso. Noi bambini da San Tommaso andavamo a Saiano (un chilometro e mezzo) per mangiare un cono di gelato. Per 30 lire la mamma del prete metteva cioccolato e panna e ci dava il cono in mano. Guardava bene e spesso ce lo chiedeva indietro per togliere un po’ di gelato convinta di averne messo troppo. Povera donna, era molto tirchia. Esistevano, ma io non ricordo l’uso di pile. Per inoltrarsi nel buio ci si aiutava con un lume a petrolio o nelle notti di luna piena non c’era bisogno di nulla. Tutte le biciclette avevano la ‘’dinamo’’ e con il movimento le lampadine davanti e di dietro si illuminavano. A quei tempi alcuni contadini iniziarono ad acquistare le Apecar. Bene, neppure queste avevano la batteria quindi la messa in moto era a pedale ed i fanali si illuminavano con la dinamo ed il mezzo in movimento. Per la verità fecero la prima comparsa in campagna le prime radioline a transistor che avevano le pile per funzionare. Le vendeva un certo Ghetti che più che contadino, mestiere dove sicuramente non eccelleva, era un trafficante di sigarette di contrabbando ed appunto di radioline a transistor.
di Fiorenzo Barzanti.-